«Se vanno avanti a dire sempre no, no, no, è un problema». Una frase già ripetuta mille volte, consegnata in tarda serata a Porta a Porta. Oltre Salvini non è andato. Forse perché distratto da altro – la guerra alla Ong – forse perché consapevole che alzando la voce contro i 5 Stelle avrebbe finito per sottolineare una sua sconfitta, ieri il capo leghista ha vistosamente evitato il tema dell’autonomia differenziata. Sacrificata alla mezzanotte di martedì a conclusione del lungo vertice di maggioranza, e dunque assente nel consiglio dei ministri di ieri.

L’appoggio di Conte alle ragioni dei grillini, che su scuola e sanità hanno (facilmente) dimostrato che, seguendo il progetto leghista, per il Mezzogiorno si porrebbe subito l’alternativa tra tagliare drasticamente i servizi o aumentare le tasse, ha di nuovo rallentato la cavalcata identitaria del ministro dell’interno. Fermata al termine del vertice di palazzo Chigi esattamente al punto in cui stava cinque mesi fa. Con le forze di governo che ancora si rimpallano tre bozze di accordi con le tre regioni capofila dell’autonomia differenziata – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – quando su quei testi non c’è neanche l’intesa con i tre governi regionali.

Se Salvini, dopo aver annunciato un testo (e uno solo!) «pronto per il Consiglio dei ministri», ieri ha sostanzialmente glissato, è tornato sull’argomento Di Maio per assicurare che «l’autonomia che chiedono i cittadini di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna è giusto che si faccia, sarà un’autonomia equilibrata, fatta bene, che gioverà veramente a regioni e comuni». Allusivo, il vicepremier grillino ha aggiunto: «Non penso che qualcuno voglia tornare ai tempi della secessione della Padania e non ho motivo di dubitare che sapremo trovare insieme la soluzione migliore, ma alcune posizioni più estreme mi preoccupano».

Ieri è stato soprattutto il giorno delle reazioni dei tre presidenti delle tre regioni interessate, due della Lega e uno del Pd ma tutti ugualmente polemici con i 5 Stelle. Se il presidente della Lombardia Fontana ha messo avanti il suo sconforto – «non so cosa pensare, così non si può più andare avanti, è inutile continuare a prendere in giro la gente» – il veneto Zaia ha definito «manfrine» quelle dei 5 Stelle che paventano il rischio di «un paese di serie A e un paese di serie B». Il Pd emiliano Bonaccini ha aggiunto che «il copione è sempre lo stesso, a dichiarazioni roboanti non segue nulla, ma l’Emilia Romagna non si lascerà prendere in giro».

Alla protesta dei governatori leghisti, che nella geografia interna del partito fanno parte della fazione pronta da tempo a mollare i 5 Stelle e tornare al voto, Salvini non ha potuto opporre che una – nuova – richiesta di tempo. L’autonomia non potrà che seguire la sorte dell’intero esecutivo, e questa non si gioca nel rapporto con le regioni ma in quello con l’Unione europea. Nel frattempo ai leghisti non è rimasta che qualche battaglia di retroguardia contro lo stato centrale. Come quella messa su dalla sottosegretaria leghista Borgonzoni contro il suo stesso ministro dei Beni culturali Bonisoli (5 Stelle), autore di una riorganizzazione del ministero giudicata penalizzante per «le prerogative e le competenze delle istituzioni sul territorio». Solo che, risponde l’ufficio comunicazione 5 Stelle, «questa posizione della Lega arriva successivamente alla decisione collegiale presa in Consiglio dei ministri». Allora la Lega non aveva battuto ciglio.