Con la consegna alla Corte di Cassazione del quesito referendario per l’abrogazione dell’autonomia differenziata e l’avvio della campagna per la raccolta delle firme, stiamo entrando nel vivo di una stagione di mobilitazioni che potrebbe rappresentare un’occasione unica di riscossa per la sinistra. Potrebbe, ma non è detto… Molte sono le incognite, non solo legate alla questione dell’ammissibilità del referendum e al rischio che il quesito che chiede l’abrogazione totale venga scalzato da quello per l’abrogazione parziale, presentato dalle Regioni. Il punto vero è se vi sia, oggi, da parte del variegato fronte che si oppone alle riforme meloniane, una reale disponibilità a fare i conti con una lunga storia di subalternità nei confronti della destra.

Sì, perché, ad essere onesti, bisogna riconoscere che, per lo meno a partire dagli anni Novanta, è stata la destra – l’estrema destra, non una destra qualsiasi – a imporre con successo la propria visione del mondo e la propria agenda, non solo in materia di scelte economiche e sociali. Mi limito qui a evocare tre nomi: Pinuccio Tatarella, Mirko Tremaglia, Gianfranco Miglio.

Il primo, già capogruppo del Msi alla Camera, poi esponente di spicco di An e vice-presidente della bicamerale di D’Alema, è l’autore, nel 1995, di una legge elettorale regionale – il Tatarellum – che prevedeva l’indicazione del nome del candidato Presidente sulla scheda, anticipando la costituzionalizzazione dell’elezione diretta. Questa legge ha funzionato da modello per tutti i sistemi elettorali successivamente adottati dalle Regioni, contribuendo a rendere culturalmente accettabile una forma di governo “iper-presidenziale” in cui, grazie a soglie di sbarramento e premi di maggioranza variamente congegnati, il Presidente eletto dai cittadini ottiene la certezza quasi matematica di avere il sostegno di una salda maggioranza. Qualcosa che nessun sistema presidenziale, o semi-presidenziale, può assicurare, come dimostrano i casi di governo diviso negli Stati Uniti e di coabitazione in Francia.

L’elezione simultanea del capo del governo e della sua maggioranza è il cardine anche della «madre di tutte le riforme» meloniana, il premierato, che oggi la sinistra contesta, gridando al furto di democrazia. Sorge però la domanda: come si fa ad opporsi al premierato continuando a chiudere gli occhi sui poteri abnormi, e quasi assoluti, dei “governatori”, che dall’attuazione dell’autonomia differenziata risulterebbero ulteriormente rafforzati? Bisognerebbe iniziare a chiederselo, tenendo presente che l’art. 122 della Costituzione attribuisce alle Regioni la facoltà di rivedere i propri statuti, introducendo forme di designazione del Presidente diverse dall’elezione diretta, in conformità con l’impianto parlamentare originario.

Il Fronte de gauche, in Francia, dopo anni di “monarchia repubblicana”, ha avuto il coraggio di inserire nel proprio programma il ritorno al parlamentarismo e al sistema proporzionale. Si può sperare che qualche Regione governata dal centro-sinistra apra una riflessione sul tema?

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Il secondo nome è quello di Mirko Tremaglia, anche lui ex missino (ma, prima ancora, repubblichino), quindi parlamentare di An e del Pdl. A Tremaglia si deve una legge approvata a larghissima maggioranza nel 2001, che riconosce agli “italiani all’estero” il diritto di partecipare alle consultazioni che si svolgono in Italia. Mentre – ricordiamolo – a gran parte degli stranieri che nascono, vivono, lavorano, studiano, pagano le tasse nel nostro paese questo diritto è negato.

Al di là della concezione etnica della cittadinanza che una simile legge esprime, in linea con la cultura politica di chi l’ha proposta, è bene ricordare che al raggiungimento del quorum necessario per la validità dei prossimi referendum contribuiranno – o non contribuiranno – anche quasi 5 milioni di “italiani all’estero”, la cui partecipazione alle consultazioni referendarie è, di regola, bassissima. Un problema non trascurabile per la riuscita del referendum sull’autonomia differenziata, ma soprattutto un vulnus per la democrazia. In base a quale logica chi risiede stabilmente all’estero dovrebbe contribuire a fare, o disfare, leggi che non sarà tenuto a obbedire? Leggi su cui, invece, chi vive in Italia non viene consultato?

Il terzo convitato di pietra nell’attuale dibattito sulle riforme è Gianfranco Miglio, l’eminenza grigia della Lega nella sua fase secessionista. Nel 1997 Miglio sosteneva, in dialogo con Augusto Barbera, che la Padania, «la terra più ricca e laboriosa d’Europa», avrebbe dovuto affrancarsi dalla zavorra del Sud, di cui era divenuta lo «schiavo fiscale», avvalendosi del diritto a «separarsi da un’unione politica che non è più conveniente». Non è difficile cogliere in queste parole l’autentico, brutale, obiettivo degli attuali riformatori: «difendere i soldi del Nord», come ha efficacemente sintetizzato Francesco Pallante nel suo Spezzare l’Italia (Einaudi 2024).

Ma, allora, di nuovo, non si può non chiedersi come è stato possibile che proprio il centro-sinistra, nel 2001, abbia spalancato le porte a un simile obbrobrio, approvando a stretta maggioranza la riforma del Titolo V. E come sia potuto accadere che tra le Regioni firmatarie delle prime bozze d’intesa per ottenere ampi margini di autonomia figuri l’Emilia Romagna di Bonaccini…
Può la costruzione di una credibile opposizione alla destra esimersi dall’affrontare simili interrogativi?