Una minuscola isola persa al largo della costa occidentale dell’Irlanda. Un luogo dove a lungo si è parlato quasi soltanto il gaelico, si è vissuti di pesca e di quel poco che la natura selvaggia di una terra battuta quasi ogni giorno dal vento e dalla pioggia può regalare. È questo lo scenario nel quale si incontrano Lloyd, un pittore inglese venuto a cercare ispirazione lungo le scogliere affollate dai gabbiani e Jean-Pierre, un ricercatore francese che sogna di realizzare sull’isola lo studio di una vita: un documento sull’evoluzione della lingua locale attraverso le generazioni.

Mentre sullo sfondo arrivano, in quell’estate del 1979, le tragiche notizie del conflitto armato che dilaga in Irlanda del Nord, saranno loro, ospitati dagli abitanti del luogo, una comunità dove emergono le figure di tre donne di età differenti e di un ragazzino, a rendere concreto il significato del titolo che la scrittrice irlandese Audrey Magee ha scelto per il suo ultimo libro, La colonia (Bollati Boringhieri, traduzione di Chiara Baffa, pp. 304, euro 18).

Tra le protagoniste della 27a edizione del Festivaletteratura di Mantova che si apre mercoledì 6 con l’intento annunciato di sfidare autori e autrici a «trovare le parole» giuste per raccontare la complessità del nostro tempo, Magee sarà al centro di un incontro con Marcello Fois (sabato 9, ore 21,15, Palazzo Ducale. Nel suo romanzo, che fa seguito a Quando tutto sarà finito (Bollati, 2015), indaga senza riserve o tabù i temi dell’appartenenza e dell’identità, del peso che la violenza può costituire generazione dopo generazione, ricostruendo una memoria dolente che, almeno in parte, è anche la sua.

La scrittrice Audrey Magee

Un pittore inglese che vuole rilanciare la propria carriera ad ogni costo; un linguista francese che vuole salvare il gaelico, ma rivede anche in questa battaglia la propria traiettoria personale di figlio di una coppia franco-algerina; gli abitanti dell’isola costretti a convivere da generazioni malgrado le proprie diverse aspirazioni e sentimenti e i dissidi che questa convivenza nasconde. Ne «La colonia» i «forestieri» sfruttano l’isola e chi ci vive per i propri scopi, ma nessuno sembra fino in fondo innocente…
Sull’isola che ho immaginato per il romanzo nessuno è innocente. Il signor Lloyd, l’artista inglese, e Jean Pierre Masson, il linguista francese, sbarcano nell’estate del 1979 determinati a plasmare l’isola stessa e quanti vivono lì in base alla loro visione di come dovrebbe essere la vita su un remoto e povero pezzo di terra di lingua gaelica che sorge al largo della costa occidentale dell’Irlanda. Quell’idea sarà alla base del conflitto che crescerà tra loro due e con gli isolani: l’agitazione creata da questi due uomini sarà così vasta che gli stessi abitanti dell’isola saranno distrutti dalla loro presenza. Sebbene nessuno sull’isola sia del tutto innocente o esente da colpa a causa di queste interazioni, credo possano essere definiti come moralmente colpevoli, e in questo risiede il fondamento del romanzo. Nessuno dei miei personaggi commette un crimine o fa qualcosa di legalmente punibile, eppure, effettivamente, nessuno è innocente. Non è del resto questa l’inevitabile ricaduta di un sistema di colonizzazione? Qual è il peso della colpa per un inglese i cui antenati hanno colonizzato l’Irlanda? E quanto è colpevole un irlandese che ha assistito in silenzio mentre l’Ira metteva bombe e uccideva bambini? Questa è la zona grigia che esploro in La Colonia, un romanzo che si chiede cosa significhi essere colonizzato e cosa significhi essere il colonizzatore. Le eredità di quelle storie non scompaiono da un giorno all’altro, ma persistono attraverso le generazioni e vengono diluite dal trascorrere del tempo, ma persistono in un modo che rende l’innocenza una condizione sfuggente.

Il romanzo si muove lungo il confine sottile tra la denuncia delle forme di dominio e di violenza e l’incertezza a definire cosa si possa considerare «autentico». Come è nato «La colonia»?
Avevo 13 anni quando l’Ira fece saltare in aria la barca di Lord Mountbatten nell’Irlanda occidentale, uccidendo lui e altre tre persone, tra cui due adolescenti. La morte di ragazzini di 14 e 15 anni mi ha scioccato, perché sono stati uccisi in nome di un’Irlanda unita. Sono stati uccisi nella parte meridionale dell’Irlanda, nella Repubblica, non nell’Irlanda del Nord, innescando in me una crisi esistenziale intorno alla mia «irlandesità». Essere irlandese significava forse che eri felice che due ragazzi della tua età morissero mentre controllavano le nasse in una barca? Cosa significava schierarsi dietro la bandiera irlandese, parlare la lingua irlandese quando bandiera e lingua, senza alcuna colpa, erano diventate il simbolo di una causa che insegnava che era accettabile uccidere gli adolescenti. Ho lottato per conciliare tutto questo con la mia identità irlandese e, come molti, sono fuggita dal Paese, immergendomi nelle lingue e nelle culture di altre persone, finché non ho chiuso il cerchio e sono tornata in Irlanda per scrivere di quella violenza, prima come giornalista e quindi come romanziera.

Nel confronto tra Lloyd e Jean-Pierre emergono due modi, speculari, di guardare all’isola, ai suoi abitanti, alla lingua gaelica e alla storia irlandese: per il primo si tratta di un patrimonio cui attingere, o da saccheggiare, senza curarsi delle conseguenze, per il secondo tutto ciò va preservato ma solo perché resti puro», incontaminato, fermo nel tempo. Due aspetti di una comune attitudine «coloniale»?
La colonizzazione dell’Irlanda da parte di Enrico VIII ed Elisabetta I servì da modello per il resto d’Europa su come arrivare in un luogo, impadronirsi della terra e imporre nuovi sistemi legali, linguistici, religiosi ed educativi. L’esaltazione feticistica seguì la fondazione delle colonie, con oggetti e persone portati nelle capitali europee per intrattenere l’aristocrazia e i finanziatori della stessa espansione coloniale. Lloyd e Masson incarnano questi due aspetti del progetto di colonizzazione: il saccheggio e il fascino per il «nativo».

Leggendo «La colonia» si ha l’impressione che i protagonisti si sfiorino senza mai incontrarsi: ciascuno è in qualche modo «un’isola» rispetto agli altri anche se ne condivide in apparenza le sorti quotidianamente?
Volevo dare corpo alla sensazione di crescere nella Repubblica mentre la violenza stava andando fuori controllo in Irlanda del Nord. Malgrado sia cresciuta nel sud dell’Irlanda, a una certa distanza dall’epicentro della violenza, ogni bomba, ogni proiettile, ogni omicidio incideva quotidianamente sulle nostre vite, ricordandoci che non eravamo poi così lontani come ci piaceva credere. Ed è così che ho immaginato l’isola del romanzo, dove i personaggi vivono all’inizio apparentemente ignari e indifferenti alle notizie provenienti dall’Irlanda del Nord. Per sopravvivere a quel clima violento tengono tutto e tutti a distanza. Crescere in un contesto di violenza politica crea un mondo di microisole, dove tutti vivono lontani dalla violenza ma la sentono lo stesso; dove nessuno è coinvolto ma tutti sono coinvolti; dove non c’è alcun impatto diretto rispetto all’esperienza di chi vive nel Nord Irlanda, eppure il suo impatto è profondo. Sei presente ma anche assente, appartieni al tuo Paese ma al tempo stesso non appartieni a nulla. Lo spazio surreale che era l’Irlanda degli anni Settanta.

La violenza sembra circondare i protagonisti del romanzo e rimane latente per tutta la storia, malgrado caratterizzi emotivamente le loro relazioni. Eppure fino all’ultima pagina lei ha scelto di non renderla manifesta, perché?
La violenza è presente nel libro fin dall’inizio, con i resoconti degli omicidi nell’Irlanda del Nord. Quella violenza è l’eredità della colonizzazione, la battaglia in corso per un’Irlanda indipendente. Come puoi, da abitante dell’isola, avere rapporti con un inglese in tale contesto? Come si fa ad ospitare e nutrire un inglese, a prendere i suoi soldi, quando solo poche miglia più in là vengono piazzate bombe per spingere gli inglesi fuori dall’Irlanda? La violenza è uno spazio complicato da gestire e per gran parte del romanzo i personaggi riescono a tenerla a distanza, a mantenerla sullo sfondo. L’uccisione di Mountbatten, e di altri tre, cambia la situazione poiché quegli omicidi sono avvenuti a sud del confine, a Sligo, sulla costa occidentale dell’Irlanda, vicino all’isola della storia. Gli isolani non potevano più trattenere la violenza. Era arrivato fino a loro.

A fare da contrappunto alla storia ci sono delle brevi cronache delle violenze che hanno caratterizzato il conflitto nordirlandese: omicidi, stragi, attentati. Come le avete scelte?
In realtà non le ho scelte io: sono gli omicidi e le morti così come avvennero in ordine cronologico durante quell’estate del 1979. Ho costruito il romanzo attorno a quelle morti consapevole che stavo fondendo la realtà con la finzione, che stavo raccontando le storie di come le persone morivano, di come erano state uccise; consapevole anche che a volte parenti e amici erano stati con loro mentre morivano, che quei parenti e amici potevano essere ancora vivi.

Il romanzo è ambientato alla fine degli anni ’70, vent’anni prima degli accordi del Venerdì Santo del 1998 che hanno aperto la strada alla pace in Irlanda del Nord. Qual è l’eredità più duratura di questo lungo e tragico conflitto?
Credo sia una domanda importante, poiché penso che noi stessi non comprendiamo fino in fondo l’eredità di quella violenza. A nord e a sud del confine abbiamo visto generazioni di giovani crescere senza una conoscenza o un’esperienza diretta di quella violenza che ha così determinato invece la vita dei loro genitori e nonni. Si tratta di uno sviluppo entusiasmante, che a volte diamo per scontato. A nord del confine, però, le cose sono un po’ più complicate. La politica resta bloccata, i partiti sono ulteriormente polarizzati dalla decisione della Gran Bretagna di lasciare l’Unione Europea, portando con sé l’Irlanda del Nord, anche se il 56% della popolazione locale ha votato per restare. Molte persone si sono allontanate dalla violenza, ma altre rimangono bloccate nel passato, intrappolate in quell’eredità di violenza. Più ti avvicini alle comunità una volta epicentro di quella violenza, più è probabile che trovi disturbi da stress post-traumatico e traumi che persistono ancora. Quel trauma viene trasmesso di generazione in generazione, e i bambini ereditano ancora le prospettive dei genitori e dei nonni sull’antagonismo, la polarizzazione e la divisione. Ma si tratta di un trauma in gran parte nascosto, messo a tacere dal bisogno collettivo di andare avanti, di lasciarsi alle spalle la violenza.