«Questo è il Kali Yuga, l’età della perdita, l’età del male». Nelle parole di Neda c’è tutta la rassegnazione di chi ha creduto in un cambiamento, ma si è dovuto arrendere di fronte alla constatazione che questo stava sì avvenendo ma nel segno della distruzione, del dolore, della morte. Per gli induisti il Kali Yuga corrisponde ad un’epoca oscura, scossa da molti conflitti e durante la quale gli esseri umani sono spinti a credere solo negli aspetti più superficiali e materiali della vita: alla fine di questa stagione si ricomincerà con un nuova «età dell’oro», ma non prima della fine del mondo così come lo abbiamo conosciuto.

La giornalista e scrittrice Deepti Kapor, 43 anni, nativa di Moradabad, nello Stato settentrionale dell’Uttar Pradesh, ha scelto di raccontare in questi termini il volto della nuova India. Il suo L’età del male (Einaudi, pp. 634, euro 22), il primo di una trilogia in corso di pubblicazione in 35 Paesi, si annuncia come uno dei più straordinari casi editoriali del Subcontinente indiano e un ulteriore segnale di come si possano interrogare le contraddittorie trasformazioni di una società attraverso un vasto affresco letterario che fa ricorso ai codici del romanzo criminale: tutt’altro che una novità per il grande Paese asiatico. La prossima settimana Kapor sarà tra gli ospiti del Festivaletteratura di Mantova, dove quest’anno si parlerà molto dell’India, dialogando con Carlo Lucarelli (sabato 9 alle 17 a Palazzo San Sebastiano).

La scrittrice Deepti Kapoor

NEDA È UNA GIORNALISTA, appartiene a una famiglia della buona borghesia di Delhi, genitori progressisti che l’hanno aiutata a studiare all’estero per poi fare ritorno nel suo Paese con l’idea che denunciare la corruzione, il malaffare che lega in modo inscindibile il potere, la politica e la criminalità, potesse aiutare l’India a intraprendere la strada di una modernizzazione più equa, solidale, capace di coinvolgere anche quei milioni di persone che lottano ogni giorno per sopravvivere e le cui esistenze non sembrano interessare a nessuno. Finirà per legarsi a Sunny Wadia, il rampollo di una delle più importanti famiglie criminali del Paese che dall’Uttar Pradesh ha esteso via via il suo potere alla stessa capitale federale. La giovane donna sarà testimone di violenze e intrighi, ma non avrà più né la forza né la volontà di far emergere la realtà di ciò che la circonda. Accanto a lei, gli altri protagonisti di L’età del male: Ajay che è stato venduto dalla madre per riscattare un debito contratto nelle campagne del Paese e che finirà per diventare un killer al soldo dei potenti; i fratelli Wadia, al tempo stesso alleati e concorrenti in un mondo criminale che dalle zone rurali, dove c’è chi vive ancora in condizioni di semi schiavitù, si è dato l’obiettivo di conquistare il cuore delle istituzioni nazionali; Dinesh Singh, figlio di un potente malavitoso che immagina una possibile alleanza con i contadini per sostenere la propria carriera politica e, almeno in parte, per evitare che lo sfruttamento di cui sono vittime questi ultimi conduca alla rivolta e a far crollare lo stesso sistema di corruzione cui lui e la sua famiglia devono le proprie fortune.

Intorno a queste figure, L’età del male traccia le coordinate di uno sviluppo nel segno della violenza che lascia dietro di sé sempre nuove vittime e che mette ogni giorno a confronto i nuovi ricchi con quanti non possiedono spesso neppure un paio di scarpe, si tratti della campagne selvagge del Rajasthan come dei resort per turisti dell’Himalaya o, infine, delle bidonville di Dehli da cui gli abitanti sono scacciati con i bulldozer non per fare spazio all’edilizia popolare, ma a nuove speculazioni e alla costruzione di appartamenti di lusso circondati dal verde e da ogni comfort.

DEEPTI KAPOOR sceglie di raccontare il volto sinistro e tentacolare del suo Paese, indicandone l’epicentro nella corruzione che pesa sulle istituzioni di Dehli, ma la via indiana al noir è già passata anche altrove, evidenziando come sia questo un canone con il quale i giovani autori riescono a maneggiare le drammatiche contraddizioni sociali nelle quali si muovono al pari dei loro concittadini. Solo pochi anni fa l’Economist aveva parlato di Mumbai (la città che dal 1996 ha dismesso l’antico nome coloniale di Bombay per acquisire quello di una dea indù in onore al montante nazionalismo politico-religioso) come la capitale del noir urbano, proprio in virtù degli stridenti contrasti che alimentano la metropoli economica indiana.

Una realtà fotografata all’inizio degli anni Duemila dal romanzo di Vikram Chandra Giochi sacri (Mondadori, 2007) – da cui Netlix India ha poi tratto una fortunata serie tv – che attraverso i destini incrociati del detective Sartaj Singh e del gangster Ganesh Gaitonde descrive in un’autentica epopea narrativa, quasi 1200 pagine di testo, le rivolte del 1992, la crescita del nazionalismo indù, il dividersi su base comunitaria non solo del mondo degli affari ma anche di quello della criminalità.

I protagonisti della serie tv «Aranyak»

Ancora più indietro nella storia complessa della città scavava Narcopolis di Jeet Thayl (Neri Pozza, 2012) ambientato negli anni Ottanta nel reticolo febbrile di locali che si aprono lungo Shuklaji Street, nell’antico cuore urbano della città: «stanze per il sesso o per la droga, stanze per Dio, stanze segrete che si riducono di giorno e si espandono la notte». Se a Delhi il crimine si intreccia con il potere politico, a Mumbai sono le produzioni di Bollywood, i cui film sono stati talvolta finanziati con i soldi delle mafie, a fare gola alla criminalità. Mentre a fare da sfondo a tutto ciò, come ha notato Paul French su Crime Reads, c’è «una città complicata, poliglotta, multietnica e caratterizzata da un confuso caos di religioni, di bassifondi e palazzi da sogno, di stile Bollywood e prostitute in gabbia nei vicoli».

L’ATTUALE SVILUPPO del noir indiano, come nota Gyan Prakash ne La città color zafferano (Bruno Mondadori, 2010) è stato annunciato da simili temi affrontati dai comics locali, diffusi un po’ tra tutte le generazioni. Come «il vendicatore di strada» Doga, nella famosa serie di fumetti che porta il suo nome, «una macchina da guerra implacabile che indossa una tuta attillata che ne accentua il fisico imponente» e una maschera da cane: ha giurato di proteggere Mumbai e i suoi abitanti dal crimine.

Prima che le mafie cominciassero ad occupare l’orizzonte delle metropoli indiane, già negli anni Sessanta erano gli eroi dei cosiddetti Jasoosi Upanyas, le nostre spy story, a riempire di centinaia di titoli i chioschi improvvisati delle stazioni ferroviarie del Paese. Un fenomeno tracimato poi anche nell’industria cinematografica di Bollywood che ha adattato molte di queste storie, prima che venissero rimpiazzate a partire dagli anni Novanta dal boom delle soap televisive.

Se la figura del «giustiziere» emergeva già nei primi racconti più specificamente metropolitani, a lungo, al centro del romanzo poliziesco locale figuravano però dei modelli d’importazione. Lo ha confessato candidamente anche uno dei maggiori autori indiani, R. V. Raman, autore di decine di romanzi sfortunatamente non ancora tradotti nel nostro Paese che, prima di Internet, è cresciuto al pari dei suoi coetanei con le storie di Agatha Christie, Arthur Conan Doyle, Edgar Wallace, Erle Stanley Gardner e degli altri giganti della narrativa di genere. Quando però ha iniziato a scrivere, il suo debutto è di una decina di anni fa con a A Will to Kill, si è reso conto che non esisteva una vera e propria tradizione locale cui ispirarsi. O che, per dirla con Ashok Banker, un altro autore indiano ancora inedito in Italia, che si doveva «lavorare di fantasia». Per Banker, infatti, la classica figura del detective «è un concetto in gran parte occidentale: un mito di supremazia caratterizzato da una figura maschile bianca, superiore in forza e in intelletto a coloro che lo circondano e che salverà il mondo. Una tradizione che gli americani hanno ereditato dagli inglesi».

Oggi, però, che a minacciare la diffusione dei «romanzi criminali» c’è l’ondata moralizzatrice imposta dal governo del nazionalista indù Narendra Modi che ha preso di mira anche serie tv popolari come Delhi crime, Vortice o Aranyak, il noir sembra mostrare, forse in modo inconsapevole, anche il suo volto meno evidente: la capacità di raccontare il Paese senza soffermarsi troppo sulle divisioni tra le caste, tra indù e musulmani, tra ricchi e poveri, ma cercando solo di guardare in faccia il male. Quale che sia la sua espressione.