Il capo dell’esercito sudanese (Fas), Abdel Fattah al-Burhan, ieri è sopravvissuto a un tentativo di assassinio con un drone durante una cerimonia di laurea militare a Gebeit, nel Sudan orientale. «Cinque persone, tra cui alcuni studenti e un ufficiale, sono state uccise», secondo quanto ha indicato il tenente colonnello Hassan Ibrahim, portavoce dell’esercito.

L’attacco attraverso l’utilizzo di droni è stato il primo del suo genere a Gebeit, diventata «la capitale temporanea del governo sudanese» e sede di molti ministeri governativi e ambasciate straniere da quando, nell’aprile 2023, è cominciata la guerra che ha devastato la capitale Khartoum, e che vede contrapposti i militari sudanesi alle Forze di Supporto Rapido (Rsf) di Mohamed Hamdane Dagalo (detto Hemedti). Il portavoce dell’esercito sudanese ha dichiarato che le difese aeree dell’esercito hanno intercettato «due droni nemici che hanno colpito i partecipanti alla cerimonia», mentre al-Burhan stava lasciando la località «per rientrare in sicurezza nella sede operativa delle Fas a Port Sudan».

L’utilizzo di droni da parte delle Rsf non è una novità, con i miliziani di Dagalo che negli ultimi mesi hanno colpito diverse aree controllate dall’esercito: Kosti, Atbara, Gedaref, Shendi e Kenana. In un contesto di guerra sempre più tecnologico, i droni a basso costo stanno trasformando i campi di battaglia in una lotta incessante tra le forze governative e le Rsf, con i civili spesso vittime innocenti dei combattimenti. Lo scorso mese numerose ong (Human Rights Watch, in particolare) avevano richiesto all’Onu, l’invio di una missione sotto l’egida dell’Unione Africana (Ua) con l’obiettivo di «proteggere i civili e monitorare l’embargo per la fornitura di armi in Sudan», visto che Emirati Arabi Uniti, Iran, Turchia e Russia – attraverso la Cirenaica di Haftar – starebbero ancora equipaggiando entrambe gli schieramenti con armi, missili e droni.

Il tentativo di assassinio di al-Burhan avviene quasi una settimana dopo che il leader dei militari sudanesi aveva dichiarato la propria disponibilità a partecipare in Svizzera, il prossimo mese, ai colloqui «per un cessate il fuoco» organizzati dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita. Incontro che dovrebbe prevedere anche la presenza di Dagalo, che in un recente comunicato ha sottolineato «l’apertura dei colloqui come un primo passo importante verso la pace e la stabilità del Sudan».

Ma se le richieste per un cessate il fuoco da parte della comunità internazionale diventano sempre più insistenti, la situazione sul campo indica che i combattimenti continuano incessanti in tutto il paese. Ad inizio luglio le Rsf hanno iniziato un’intensa offensiva contro l’esercito nella provincia di Sennar ed hanno conquistato la città di el-Fula nel Kordofan occidentale, importante perché ricca di giacimenti petroliferi.

Da un punto di vista strategico c’è la volontà di Hemedti di voler prendere il controllo di alcune regioni importanti per le risorse economiche, come per l’oro nel Darfur. I paramilitari controllano infatti tutte le capitali dei quattro stati del Darfur tranne quella di el-Fasher, capitale del nord, sotto assedio da oltre tre mesi, con due milioni di persone – tra abitanti e profughi interni – senza cibo, acqua e medicinali.

I numeri del conflitto sono terrificanti. In poco più di un anno, la guerra ha causato la morte di 28mila civili – 15mila nella sola città di el-Geneina nel Darfur – e ha provocato l’esodo di oltre 11 milioni di profughi interni o accolti nei paesi confinanti, con solo il 10% delle risorse necessarie in aiuti umanitari finanziate e meno del 5% distribuite.