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Atlante delle macerie

Atlante delle macerieL’abitato di Ighil a un anno dal terremoto che l’8 settembre 2023 ha colpito il medio e alto Atlante marocchino – Lorenzo De Blasio

Reportage A un anno dal sisma che ha colpito il Marocco causando quasi tremila morti, gli abitanti dei villaggi di montagna restano nelle tende. I piani di ricostruzione ci sono, ma sono inutili

Pubblicato circa un mese faEdizione del 5 settembre 2024

Ighil era un agglomerato di frazioni in cui sorgevano all’incirca 200 abitazioni. Oggi si contano sulle dita di una mano le case che sono rimaste in piedi. Siamo nell’epicentro del sisma che ha colpito duramente il medio e alto Atlante marocchino lo scorso 8 settembre, causando quasi tremila morti e oltre seimilla feriti.

Tra tende sparse e qualche baracca costruita con mezzi di fortuna, le macerie sono ancora li. I lavori per la ricostruzione in questa zona procedono molto più a rilento che altrove. La maggior parte delle abitazioni sorgeva in punti in cui non sarà possibile tirare su le nuove case per motivi di sicurezza. Per molte famiglie la sistemazione attuale sembra quindi essere molto più di una prospettiva a breve termine.

A SETTE CHILOMETRI dall’epicentro – arrampicandosi per una strada a strapiombo sul fondovalle – si arriva a Tadafalte. Una sessantina di case costruite sulla roccia con spesse pietre e travi in legno che si sviluppano su più livelli, grazie a un complesso sistema di terrazzamenti, consentono riparo oltre che agli abitanti ai pochi animali rimasti e ai frutti di quello che viene coltivato giù a valle.

Anche qui non c’è traccia di lavori. «Abbiamo ricevuto i piani per ricostruire, ma non possiamo procedere. Le caratteristiche di questa zona non ci permettono di costruire le case progettate in maniera standard dal governo» racconta Hamid, che come referente del douar porta avanti con altri villaggi nella stessa situazione una protesta che ormai va avanti da mesi. «Un altro ostacolo è dato dal fatto che vogliamo ricostruire le case con le pietre che abbiamo qui, i mattoni non ci permettono di isolare le case come la pietra», continua a spiegare.

SECONDO I DATI forniti il 2 settembre durante l’11esima riunione del Comitato interministeriale incaricato del programma di ricostruzione, sarebbero oltre 57mila le famiglie che hanno già ottenuto la prima tranche di 20mila dirham (poco meno di 2mila euro) destinata alla ristrutturazione o ricostruzione delle case colpite dal sisma. Il piano di ricostruzione prevede che le abitazioni rispettino un progetto standard che – in base al numero di abitanti della famiglia titolare dell’indennizzo – può essere di 50 o 70m2. Ma proprio in virtù della differenti problematiche dovute a materiali, posizione e presunto non riconoscimento del giusto indennizzo, la maggior parte delle famiglie non ha ancora avviato i lavori.

Aspettando che la situazione si sblocchi, il ritmo della quotidianità nei villaggi è cambiato. «Se prima le persone erano abituate a svegliarsi all’alba per accudire gli animali, adesso si alzano tutti non prima delle 8h30», racconta Mohamed, operatore sociale che con una ong locale ha organizzato in queste zone numerose attività di sostegno psicologico alle vittime del sisma. «Molti animali sono morti sotto le macerie. Quelli rimasti sono stati venduti perché non c’era più modo di accudirli e di nutrirli», conclude.

ANCHE CHI LAVORAVA fuori città per mantenere la famiglia rimasta nel villaggio con il passare dei mesi ha fatto ritorno a casa per la necessità di dover ricostruire la casa perduta. L’attesa per lo smantellamento delle macerie e l’arrivo delle autorizzazioni necessarie per poter ricostruire però ha gettato molte persone nell’incertezza più totale.

«Se chiedi a qualcuno se ha dei piani per i prossimi mesi non ti sa rispondere, perché nei villaggi in cui le macerie non sono ancora state sgomberate nessuno sa nulla su come e quando si potrà ricominciare a parlare di ricostruzione» continua a raccontare Mohamed.

Ritornando sulla strada nazionale n°7, che da Marrakech attraversa l’atlante marocchino proprio nel cuore dell’epicentro arrivando fino a Taroudant, numerosi accampamenti sorgono ai bordi delle strade. Il campo in cui sono stati ricollocati gli abitanti di Ourigh è uno di questi. Dove prima sorgeva un vivaio, adesso quaranta famiglie hanno trovato la loro nuova casa provvisoria grazie alla concessione di un compaesano proprietario dello spazio.

CHI NE HA LA POSSIBILITÀ si adopera per ricostruire all’interno del comune di riferimento, l’unica soluzione per poter comunque usufruire degli aiuti erogati dallo stato, che si traducono in 80mila dirham per le case che hanno subito danni consistenti e 140 mila (13mila euro) per quelle che sono crollate.

«Casa mia, per la sua posizione ai piedi della montagna, come le altre su questo costone, non ha l’idoneità per essere ricostruita. Mio cognato mi ha dato la possibilità di utilizzare il terreno accanto al suo nel villaggio qui vicino, ma gli altri come faranno?» commenta Brahim, camminando tra le macerie di quello che resta del suo villaggio, situato a due chilometri nell’entroterra.

Brahim osserva quello che resta della sua casa nel villaggio di Ourigh (foto di Lorenzo De Blasio)

QUI SORGE UNA MINIERA di barite, che nonostante il grande ridimensionamento avvenuto nel corso degli anni resta oggi la sola attività rimasta in piedi nel douar, ormai abbandonato. «Prima del terremoto i ragazzi che dopo le medie andavano al liceo erano abituati ad andare a studiare fuori. Chi lavorava lo faceva nelle grandi città per portare soldi a casa e costruire qui una casa per la sua famiglia. Se la situazione rimarrà quella attuale, cosa li spingerà a tornare?» conclude Brahim.

Mentre percorriamo la strada che ci riporta all’accampamento incontriamo le due insegnanti appena arrivate nel campo per assicurare le lezioni del ciclo di scuola elementare che ricomincerà a breve. Ci mostrano quello che sarà il loro alloggio: una stanza in un container adiacente a quello adibito ad aula, affiancato da una tenda senza pavimento per cucina. Cambia poco dalle condizioni in cui abitualmente i giovani insegnanti sono ospitati nei primi anni di lavoro, in cui vengono mandati a farsi le ossa nei villaggi più remoti del paese. A un anno dal sisma tutto è cambiato ma nulla è cambiato viene da pensare.

DOPO UN’ESTATE TORRIDA in cui la situazione sulle montagne non sembra aver fatto grandi progressi, le famiglie si preparano a rifoderare le tende con la plastica per arginare le prime attese piogge e le temperature che in inverno da queste parti sfiorano lo zero, sperando di poter ritornare in tempi brevi ad avere quantomeno un vero tetto sopra la testa.

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