Più che della «vita segreta delle donne», i suoi romanzi raccontano dall’interno contraddizioni, ansie e paure da una prospettiva di genere, restituendo tutta l’inquietudine che spesso si cela nelle esistenze quotidiane e nelle ombre che inevitabilmente le popolano. Ashley Audrain non ha dubbi in proposito, per i lettori le sue storie devono rappresentare un’«esperienza emotiva»: lo sguardo di una donna su ciò che le donne vivono in famiglia, sulla «loro identità in questo contesto» e senza che la definizione di thriller per i due romanzi pubblicati fino ad ora dalla scrittrice canadese – La spinta (2021), divenuto rapidamente un besteseller internazionale e Sussurri (2023, pp. 356, euro 18,50), entrambi per Rizzoli – debbano far pensare a vicende di sangue. Tra le protagoniste del Noir in Festival di Milano – presenterà Sussurri in dialogo con Isabella Fava lunedì 4 dicembre alle 17.30 alla libreria Rizzoli Galleria – Audrain ha lavorato alla Penguin Boooks Canada prima di dedicarsi alla scrittura.

Forse non a caso, nelle sue storie la famiglia appare come uno degli ambienti più pericolosi, dove non è mai certo cosa possa accadere. Perché sceglie soprattutto questo scenario?
Adoro scrivere delle ansie e delle paure più comuni che viviamo come donne. E, in un certo senso, non c’è niente di più terrificante di ciò che può accadere nelle nostre stesse case, all’interno delle nostre stesse famiglie, in quello che dovrebbe essere il luogo di maggiore conforto, sicurezza e amore. Inoltre, proprio in questi contesti, quando si verificano tragedie o conflitti, emerge nelle donne una sorta di innato senso di colpa o di vergogna: ho creato questa famiglia, ho creato questa casa, ho scelto questo partner, ho cresciuto questi bambini. Per chi voglia scrivere un romanzo questo ambiente è già carico di tensione e drammaticità, specie quando si cerca di far emergere una verità scomoda.

Il suo esordio, «La spinta», indaga il lato in ombra della maternità, le difficoltà e le possibili derive del rapporto tra una madre e una figlia. Lei ha due figli, è partita da sé per questa storia?
Anche se non lo considero come un libro autobiografico, quella storia arriva da uno spazio emotivo sincero che ho dentro ed è stata ispirata in gran parte dai miei sentimenti di allora. Ho avuto il mio primo figlio nel 2015: era malato, gli era stata diagnosticata una malattia cronica e abbiamo trascorso molto tempo in ospedale. Quindi la mia maternità ha avuto un inizio molto difficile. L’esperienza concreta che vivevo appariva in contrasto con quella che mi avevano insegnato ad aspettarmi o con quella delle amiche che avevo intorno. Ho iniziato a scrivere quello che è poi diventato La spinta quando mio figlio aveva circa sei mesi. Volevo esplorare la vita di una donna per cui la maternità è difficile, anche se Blythe, la protagonista, ha un’esperienza diversa dalla mia. Penso che in quel periodo scrivere mi sia sembrato catartico e l’unica cosa che volevo fare era amare, essere nel mondo di qualcun altro con cui potevo relazionarmi, forse anche in modo ossessivo.

In «Sussurri» torna la relazione tra madre e figli, ma nel contesto dei rapporti tra «vicine» che nascondono invidie, segreti, gelosie. Come è nato il romanzo?
Se La spinta è raccontato in modo serrato dal punto di vista di una sola donna, questa volta volevo scrivere qualcosa che permettesse al lettore di entrare nella mente di quattro donne diverse, collegate tra loro in modi che ancora non ci sono chiari. L’idea era di esplorare il modo in cui si viene percepiti: come pensiamo di essere percepiti dagli altri, rispetto a come accade effettivamente? Tra questi elementi emerge spesso una discrepanza. Così ho seguito le prospettive di quattro amiche e vicine di casa attraverso una sorta di spirale intorno a una tragedia che le lega le une alle altre. Ero anche interessata a scrivere delle amicizie femminili, che possono essere le relazioni più influenti e coinvolgenti nelle nostre vite. Allo stesso modo mi incuriosiva l ruolo che la prossimità gioca nelle nostre relazioni: non scegliamo chi sono i nostri vicini, eppure finiamo spesso per vivere l’uno nell’orbita dell’altro per anni. Whitney e Blair, due delle protagoniste, sono vicine di casa e sono legate principalmente attraverso i loro figli: anche questa è una dinamica specifica, perché spesso le madri fanno amicizia tra loro per questa via. E all’interno di tutte queste diverse relazioni, ovviamente e inevitabilmente, proviamo invidia. Penso che sia così difficile parlare di invidia per le donne, a volte perfino a identificare questo sentimento dentro di noi. Per questo volevo giocare con tali elementi: le dinamiche di potere in un’amicizia, le cose che desideriamo nella nostra vita che invece hanno le altre persone, il modo in cui ci si tratta quando non si riesce a far fronte all’invidia o ad altri sentimenti tristi.

Il romanzo mette in scena la middle class suburbana e ci immerge via via in un clima claustrofobico. Quanto pesa il contesto sociale nel creare questo senso di oppressione?
Era proprio il clima che cercavo di ottenere sia dal ritmo che dall’ambientazione del romanzo. Ho fatto tutte le revisioni del manoscritto nel pieno della pandemia, quando qui a Toronto siamo stati isolati per così tanto tempo e le scuole chiuse per mesi. In quel momento, anch’io provavo una sensazione di claustrofobia: non potevo sfuggire alla mia famiglia, al vicinato, al ruolo di madre e di compagna. Come la maggior parte delle madri, ho trovato quel periodo estremamente soffocante. Penso che ciò abbia contribuito all’atmosfera del romanzo. In un certo senso, nessuno dei personaggi può allontanarsi dagli altri e, man mano che i segreti vengono rivelati, ciascuno si rende conto di quanto la verità cambierà la vita della propria famiglia

Le sue storie sembrano evocare le atmosfere del «Diario di Edith» di Patricia Highsmith, dove una donna descrive una realtà diversa da quella che vive. Quali romanzi e autori l’hanno influenzata?
Non conoscevo il romanzo di Highsmith, ma l’ho appena comprato perché mi sembra effettivamente che affronti un tema che sento vicino. Nel mio terzo libro, a cui sto lavorando ora, approfondisco proprio il modo in cui spesso le donne hanno un’idea della realtà diversa rispetto a quella che vorrebbero vivere. Direi che mi ispirano gli autori che esplorano la vita interiore delle donne in modo audace, teso e scomodo. Amo romanzi come Ninna nanna di Leila Slimani o Il valzer dimenticato di Anne Enright che propongono dei personaggi femminili spesso definiti come «antipatici» – anche se per me non lo sono -, delle figure molto simili a quelle che voglio compaiano nelle mie storie.

Al di là dell’etichetta di «thriller domestici», perché crede che i suoi libri stiano incontrando un così grande successo?
Forse, e penso soprattutto alle lettrici, queste storie possono risultare gradite perché come donne vogliamo vedere la nostra vita interiore riflessa sulla pagina, da altre donne, in un modo che ci permetta di esplorare le nostre paure comuni: ci sentiamo meno sole in un particolare sensazione di disagio, siamo convalidati nelle nostre terribili ansie. Detto questo, penso che alcuni lettori di genere potrebbero vedere i miei libri commercializzati come thriller e aspettarsi qualcosa che non lo sono. La cosa più importante per me è offrire ai lettori un’esperienza emotiva, piena di suspense e stimolante quando leggono i miei romanzi: non mi preoccupo di come sono posizionati sullo scaffale.