Nel 1929 Antonin Artaud pubblicò la raccolta di prose intitolata L’Art et la Mort, edita in 800 esemplari numerati sotto la sigla editoriale À l’Enseigne des Trois Magots dell’amico Robert Denoël che licenziò, nello stesso anno, la pièce teatrale Victor ou Les Enfants au Pouvoir di Roger Vitrac, messa in scena l’anno prima nell’ambito delle programmazioni del Théâtre Alfred Jarry, fondato dai due scrittori con la collaborazione di Robert Aron. Il volumetto comprende otto testi che si muovono in quella sottile linea di demarcazione tra lirismo e visionarietà che si innerva lungo l’«infinita musicalità delle onde nervose», in parte riconducibile all’automatismo di ascendenza surrealista. La scrittura di Artaud si distacca tuttavia dai precetti bretoniani per l’impronta allucinatoria impressa alle singole composizioni, coniugata a una seppur vaga progettualità.

Artaud e Soupault, autore con Breton della silloge poetica Les Champs magnétiques (1920), considerata la prima opera composta con l’ausilio dell’écriture automatique, erano stati espulsi dal movimento nel ’26. La motivazione riguardava l’atteggiamento tiepido assunto nei confronti dell’engagement professato da Breton e dai suoi sodali, che si manifesterà appieno con la stesura del Secondo manifesto. Vitrac li seguirà a distanza di breve tempo, firmando con altri comprimari detronizzati da Breton il libello Un cadavre, con un fotomontaggio in copertina che riprende il «papa» del surrealismo incoronato di spine.

Artaud fu personaggio di spicco del movimento, arrivando a dirigere il Bureau de recherches surréalistes che si trovava a Parigi, in rue de Grenelle (era aperto al pubblico al fine di visionare le più strampalate invenzioni) e a curare il n. 3 della «Révolution surréaliste», il cui titolo era 1925: fin de l’êre chretienne. In quella sede compaiono alcune delle requisitorie più dure contro le istituzioni come l’Adresse au Pape, stilata dallo stesso Artaud. I surrealisti, contrari alla concezione di teatro come a quella di romanzo, si scagliarono violentemente contro il terzo spettacolo allestito dal Théâtre Alfred Jarry, Le songe ou jeu de rêves di Strindberg, con relativo intervento della polizia.

L’arte e la morte (pp. 88, € 14,00) è presentato adesso in una nuova, elegante versione di Giorgia Bongiorno e Maia Giacobbe Borelli per L’Orma editore (una precedente traduzione era apparsa per il melangolo nel 2003, a cura di Pasko Simone). Si tratta di uno dei libri più risolti della fase che Umberto Artioli ha definito «giovanile», seguita da implicazioni metafisiche e materialistiche che vanno a contrassegnare un pensiero in continuo divenire, spesso contaminato da valenze riconducibili a opzioni diametralmente opposte. Nelle prose dedicate ad Abelardo e Paolo Uccello, il cui recupero risente di quelle biografie sui generis elaborate da Marcel Schwob nelle sue Vies imaginaires, l’elemento «materialistico», contrassegnato da accurate descrizioni degli aspetti più conturbanti, se non degradanti, della sessualità («Abelardo la premeva col dardo osceno»), si innesta in una cornice compromessa con un platonismo che ai surrealisti risultava fuorviante, se non eretico. Tale distacco verrà esercitato nei confronti degli intellettuali che ruotavano intorno alla più tarda rivista «Le Grand Jeu», con i frères simplistes Daumal e Gilbert-Lecomte in testa, accusati da Breton di usare impunemente la parola «Dio».

Artaud rinnegava il coito («Rinuncia al coito casto e permesso da Dio»), come osserva in una delle riunioni riguardanti le Recherches sur la sexualité che presupponevano, sull’onda della scoperta freudiana dell’inconscio, di reagire ai tabù imposti dalla società: venivano così esaltate, sulla falsariga del precursore Sade, le pratiche erotiche più desuete (si pensi all’occhio di Bataille, alla poupée disarticolata di Bellmer). È indicativo che qualche anno più tardi Artaud interponesse nel letto il bastone di san Patrizio, originariamente appartenuto a una strega savoiarda, tra il suo corpo e quello della fidanzata Cécile Schramme, affinché le loro membra non si toccassero. L’identificazione con il castrato Abelardo, ventilata in due prose, tende a rimarcare il controverso rapporto con la carnalità che, da un lato, evidenzia fin troppo scopertamente l’attrazione per Eloisa («l’ago nelle sinuosità del suo bozzolo dormiente»), dall’altro si nega a un confronto circostanziato con il sesso: «Povero Antonin Artaud! È proprio lui l’impotente che scala gli astri».

Le occasioni da cui deriva quest’opera sono molteplici e testimoniano delle profonde implicazioni intertestuali che la connotano, non ultima quella derivante da suggestioni alchemiche ed esoteriche. Si passa dalle rielaborazioni figurative dell’Automa personale, modellato sul quadro eponimo di Jean de Bosschère (che realizza anche l’illustrazione nell’antifrontespizio dell’editio princeps), a quelle ricavate dall’Incudine delle forze, dove traspare l’ammirazione per Masson che porterà Artaud ad acquistare, nonostante le croniche ristrettezze economiche, il dipinto Homme, da cui prenderà abbrivio Ventre fin, prosa dell’Ombilic des Limbes (1925). Uccello, il pelo, uno dei brani più emblematici della raccolta, modulato intorno alla figura di Paolo Uccello che intrigherà sia Soupault sia Breton, già recepita nella variante Paul les Oiseaux nell’Ombilic des Limbes, era stato anticipato nel n. 8 della «Révolution surréaliste», accompagnato a un particolare della predella Il miracolo dell’ostia profanata.

Lettera alla veggente, accolta nello stesso numero della rivista, ricostruisce i rapporti con la medium Madame Sacco, amica di Éluard e Breton all’epoca dei «sonni ipnotici», il cui ritratto fotografico compare in Nadja. Il testo in volume aveva fatto significativamente cadere la dedica a Breton presente nel periodico, dopo l’espulsione del 1926, formalizzata con il pamphlet dell’anno successivo Au grand jour. Artaud reagirà preparando due controlibelli, editi a proprie spese: À la grande nuit ou le bluff surréaliste e Point final, composto con Georges Ribemont-Dessaignes e André Barsalou. Non mancano i riferimenti alla dissociazione tra pensiero e linguaggio, laddove si ventilano occorrenze che saranno sviluppate da maîtres à penser come Wittgenstein e Heidegger («E sai bene che il tuo pensiero non è concluso, finito, e che comunque qualsiasi cosa tu faccia non hai ancora cominciato a pensare» si legge in Chi, nel cuore…), richiamando il Leitmotiv della Correspondance avec Jacques Rivière (1927, ma anticipata in un fascicolo della «Nouvelle Revue Française» del ’24). Nel brano conclusivo, Il vetro d’amore, compaiono i profili eccentrici di Hoffmann e Lewis Carroll.

Una menzione a parte merita la ristampa di Artaud le Mômo. Ci-gît (pp. 176, € 22,00) che SE ripropone nella traduzione di Emilio e Antonia Tadini, con l’ottima curatela di Giorgia Bongiorno, originariamente apparsa nella «bianca» di Einaudi vent’anni fa. Qui i versi si riallacciano alla lezione radicale dell’ultimo Artaud, riconducibile alla «fase materialistica», dopo l’esperienza quasi decennale in vari manicomi francesi e la pratica dell’elettrochoc, comminatagli dal dottor Gaston Ferdière, primario a Rodez. Artaud, che ha ormai abiurato qualsiasi genere e disciplina, allestirà in manicomio un libretto ciclostilato intitolato Révolte contre la poésie che rappresenta, insieme a un nucleo di traduzioni da Lewis Carroll, il tentativo di riappropriarsi della dimensione creativa – paradossalmente rinnegandola – dopo anni di silenzio poetico. I testi tradotti, innervati su un linguaggio coprolalico teso al ripudio di ogni sacralità, accolgono le cosiddette glossolalie, riportate in grassetto, neologismi che recuperano le espressioni idiosincratiche degli alienati contaminandole con implicazioni religiose, riconducibili a san Paolo e agli gnostici. D’altro canto già nel 1925 Artaud aveva dichiarato: «Tutta la scrittura è porcheria».