Ariel vive a New York, dove ha un buon lavoro e sta per sposare la sua compagna, un’aspirante ballerina. Le sue radici, però, sono in Argentina, nel quartiere commerciale di Buenos Aires dove abita una nutrita comunità ebraica: El Once. Il re del Once – come recita il titolo del film di Daniel Burman presentato nella selezione di Panorama alla Berlinale, El Rey del once – è Usher, padre di Ariel e direttore di una fondazione di beneficenza per la comunità ebraica locale.

In partenza dagli Stati uniti per andare a presentare la compagna al padre – anche se lei lo raggiungerà più tardi – Ariel riceve la prima telefonata di Usher: vuole delle scarpe con la chiusura in velcro per un ragazzo che sta in ospedale. Ma è solo la prima di tante. Arrivato a Buenos Aires Ariel trova la casa in cui è cresciuto preparata per il suo arrivo, i colleghi del padre che lo accolgono alla fondazione in mezzo alle mille incombenze del loro lavoro, e nessuna traccia di Usher, che si manifesterà per tutto il film con una serie di telefonate in cui spinge Ariel a fare qualcosa: procurare medicine, andare a trovare il ragazzo in ospedale per portargli il giornale sportivo, convincere il macellaio kosher a donare alla fondazione la carne per le celebrazioni del Purim – una festa ebraica.

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«Tu quando arrivi?» gli chiede il figlio. La risposta è sempre «sono per la strada», ma a metà della settimana i cui giorni scandiscono il film Ariel rinuncia anche solo a porre la domanda. «Usher è un padre al contempo presente e del tutto assente: prepara la scena nei minimi dettagli per non presentarsi mai», osserva il regista. La sua assenza è il cuore di El Rey del once, la mancanza intorno alla quale si articola la ricerca del protagonista: della figura del padre, di risposte, di una vita normale. La risposta però, nella migliore delle tradizioni ebraiche, è che non ci sono risposte, o meglio è insita nell’abbandono di qualsiasi desiderio di normalità.

Usher, la fondazione e i suoi volontari, come spiega Burman, non sono inventati: esistono davvero. «La sfida per me era costruire una finzione che si appoggiasse lievemente su questi dati reali senza alterarli». E l’edificio immaginario che il regista pone sulla realtà ha tutte le caratteristiche di una parabola, non troppo lontana da quella evangelica del figliol prodigo anche se libera dall’elemento cristiano della colpa e del perdono: «Ariel nella sua vita ha abbandonato tutti gli strumenti che il padre gli ha fornito nella sua infanzia, e non può progredire nel suo cammino per diventare un uomo finché non li recupera, finché non accetta il padre e rinuncia a tutte le sue pretese di normalità», spiega Burman. E difatti in questo percorso metaforico Usher non è il padre pronto a perdonare la pecorella smarrita, ma un dio imperscrutabile – la madre di Ariel non sembra neanche essere mai esistita – che pone davanti al figlio una serie di prove.

Come Dio per i credenti, dice Burman, «sappiamo che c’è ma non lo possiamo vedere». Il suo piano appare indecifrabile, finché alla fine la trama della sua volontà non si rivela nella sua «perfezione», quando tutti gli elementi del puzzle assumono il loro posto prestabilito. «Sarebbe buffo pensare che per chi crede sia contemplabile l’idea che Dio non sia perfetto, che commetta errori», commenta Burman. Intanto, Ariel gira smarrito per Buenos Aires – tutte le sue certezze vacillano e in particolare quella per cui si fa qualcosa solo per riceverne un’altra in cambio. Il suo rapporto sentimentale si sgretola, le sue cose vengono rubate, la donna che desidera è un’ortodossa a cui non è consentito parlare.

Tra le sue influenze Daniel Burman cita i fratelli Coen, e in particolare il loro A Serious Man che poneva il protagonista, un novello Giobbe nell’America degli anni Sessanta, davanti al dilemma del volere di Dio. «Perché ci fa porre delle domande se non ci sono risposte?» chiedeva sconsolato a un rabbino. Nella visione decisamente laica dei Coen brothers però non era dato capire se fosse la mano divina a mettere a dura prova il protagonista: non c’era un puzzle da ricomporre ma solo un uragano pronto a spazzare via la città.

Quella di Ariel è in fondo una ricerca diversa: delle proprie radici e conseguentemente del proprio posto nel mondo, «di un destino che non gli viene imposto. Piuttosto fortemente suggerito», scherza il regista. Un percorso a ritroso che è anche quello di Burman stesso, nato e cresciuto per vent’anni a El Once: «È il posto in cui ho lasciato la mia infanzia, ogni tanto mi piace tornare e vedere che è ancora lì». Con il suo ritorno all’infanzia e alla vita che aveva lasciato in sospeso Ariel percorre la strada che lo porta ad abbandonare un desiderio che «non è reale», ma piuttosto l’ostacolo sulla via di una completezza che è essa stessa solo un’illusione.