L’Argentina, per tutto il secolo scorso teatro di violenti colpi di Stato e instabilità politica, ha vissuto il proprio Sessantotto sotterraneo con quasi un decennio di ritardo, sotto la dittatura più crudele della sua storia. Protagonista assoluto è stato il rock, che proprio in quel periodo crebbe in maniera esponenziale nonostante tentativi di censura e repressione.
Cresciuto all’ombra del tango, storicamente caro ai regimi in quanto massima espressione di autarchica artistica, fin dalle origini il rock argentino aveva conosciuto interessanti declinazioni locali che andavano oltre gli epigoni di Elvis che stavano spuntando in tutto il mondo.
Gruppi come Los Gatos o Los Beatnicks lasciavano presagire una pregevole inventiva e originalità soprattutto in campo beat e rockabilly, in tempi in cui era l’imitazione, meglio se il più fedele possibile, ad andare per la maggiore.

PRIMI PASSI
L’evoluzione del genere venne però ostacolata a partire dal 1976, quando i colonnelli guidati dal generale Videla presero il potere. La giunta militare, attraverso un elaborato piano di riorganizzazione nazionale, mirava a intervenire pesantemente sul linguaggio e sulla fisionomia ideologica del paese. Il primo passo per affrontare il cambiamento era trovare un nemico comune per una nazione da ricostruire: fu individuato nel «sovversivo». Un’etichetta generica, ma che in realtà celava una dichiarazione di guerra mirata, che divenne ben presto esplicita e dichiarata nei confronti di quei giovani che, influenzati dai movimenti americani e europei, non potevano accettare la dittatura.
In particolare i capelloni, in quanto antitesi speculare della mentalità militar-nazionalista del regime, rappresentavano il capro espiatorio ideale. Il rock non era altro che la loro musica. Di lì a poco, per ordine diretto dell’ammiraglio Emilio Massera, tra i più spietati uomini della giunta (fu giudicato tra i mandanti della tragedia dei desaparecidos), furono limitati i concerti, visti come raduni anarchici e eversivi. Era solo l’inizio di un uragano che travolse il mondo della musica argentina.

OLTRE DUECENTO TITOLI
Nel 1981 venne diramata una lista governativa, soltanto recentemente pubblicata, che bandiva più di duecento canzoni dalle programmazioni pubbliche per i loro contenuti ritenuti «non adatti» dal regime. Finirono nella lista nera mostri sacri della musica internazionale come Eric Clapton (Cocaine), Pink Floyd (The Wall), John Lennon (Imagine), ma anche artisti «insospettabili» come Lucio Battisti e Toto Cutugno.
Suonare musica diversa da tango e folklore divenne sempre più una questione privata, da fare di nascosto e lontano da orecchie e occhi indiscreti. La guerra al rock raggiunse l’apice con l’imposizione del visto di censura su ogni testo e opera musicale inedita. Alcuni musicisti furono costretti a cambiare lavoro, altri a fuggire dal paese per continuare a suonare: Mercedes Sosa, scappata in Europa dopo svariate persecuzioni e un arresto, ne è l’esempio più celebre. Eppure, nonostante tutto, dalle macerie causate dal regime i rockeros riuscirono comunque a riemergere e a trovare il modo di continuare a cantare.
Luis Aberto Spinetta e Charly García sono i pionieri artistici, oltre che i riferimenti ideologici, del cosiddetto rock nacional. Il primo, soprannominato El Flaco, era considerato l’intellettuale della musica argentina. Attivissimo e prolifico sia come solista che con le sue band (Almendra, Spinetta Jade, Pescado Rabioso), amava infarcire i dischi con citazioni colte: Nietzsche, Artaud, Jung, Sartre e tanti altri. Il secondo, leader di band storiche come Sui Generis, La Máquina de Hacer Pájaros e Serú Girán, è ancora oggi inarrivabile per popolarità, tanto da essere conosciuto, con un’espressione quasi blasfema, come «il Maradona della musica», definizione che risulta appropriata anche per descriverne il talento, l’eclettismo e gli eccessi.
Un’accademica argentina, Mara Favoretto, ha studiato come il rock nacional abbia avuto un impatto potentissimo dal punto di vista sociale, in particolare grazie a canzoni in apparenza inoffensive ma in realtà profondamente schierate contro il regime. Spesso infatti i testi erano indecifrabili per gli ispettori militari, ma non per un popolo quotidianamente oppresso e, soprattutto, consapevole del fatto fossero passati per la censura: per gli artisti era più semplice nascondere messaggi tra le righe, per il pubblico riconoscersi nei protagonisti «buoni» e trovare così nei pochi concerti consentiti uno spazio di resistenza e solidarietà reciproca. Su tutti, proprio García si distinse per la capacità di disseminare nei suoi brani pungenti metafore, ironiche similitudini o riferimenti più o meno allegorici volti ad attaccare le personalità politiche più in vista o per raccontare parabole a un vastissimo popolo di appassionati.
Nelle sue approfondite ricerche, Favoretto porta ad esempio un album, pubblicato nel 1979 da Charly García con i Serú Girán, intitolato La grasa de las capitales. La «grasa» non era altro che il grasso che nascondeva la realtà, coprendo la situazione disperata di un paese in pericolo umiliato da meccanismi violenti e totalitari.
Il disco è un interessante esperimento multiforme, che partendo dalle strutture classiche del rock progressivo, spazia con agilità tra pop, jazz e citazioni zappiane, spingendosi ad anticipare, seppur in maniera rudimentale, certa musica elettronica del decennio successivo.
La canzone simbolo dell’album è Viernes 3 AM, una ballata che inizia con un ovattato giro di pianoforte, suonato dallo stesso García, per poi esplodere in un climax in cui si aggiungono chitarra, basso e synth.

ALIENATI
Il testo racconta la storia di un uomo sul punto di suicidarsi, alienato e afflitto da un mondo falso e irrecuperabile, chiara denuncia di un paese ostaggio della dittatura. Verso la fine il protagonista chiude gli occhi, allusione all’avvenuto suicidio, e vede apparire «tutto il mare in primavera», ritrovando la serenità in un contesto più libero e pacifico. La canzone, giudicata come istigazione al suicidio, venne subito censurata. Negli anni, sarebbe diventata comunque una delle canzoni più celebri e osannate della musica argentina.
Sullo stesso piano, ma con una satira più ironica e pungente sono Desarma y Sangra e Cancion de Alicia en el país, dall’album Bicicleta dell’anno successivo. Nella prima una serie di elaborate metafore e giochi di parole alludono al collaborazionismo della chiesa cattolica al silenzio imposto dal regime. Il secondo brano è invece una dura accusa ai personaggi politici più in vista del periodo, citati utilizzando pseudonimi sarcastici e caricaturali; quella che al primo ascolto poteva sembrare una canzone innocua era un attacco diretto, e coraggioso, all’apparato.
I testi di García, grazie al suo successo e alla sua visibilità, hanno ispirato un’intera generazione di artisti a impegnarsi attivamente, rendendo il panorama artistico argentino un vero e proprio movimento culturale originale e rivoluzionario, al servizio del popolo nella lotta per la democrazia.

ULTIMO ROUND
Il 1981, anno del passaggio di potere da Videla a Viola, segna un anno di svolta fondamentale per il paese. L’occupazione militare delle isole Malvinas, da sempre contese all’Inghilterra, portano l’Argentina a imbarcarsi in una guerra suicida, che segnerà un punto di non ritorno per la stabilità della dittatura.
Il nuovo nemico è la Gran Bretagna thatcheriana. I militari, per ingraziarsi i giovani, cambiano rotta anche per quanto riguarda il rock e le decisioni prese fino a quel momento vengono ribaltate: ora, a essere vietate sono le canzoni in inglese, la lingua del nemico. Tutto lo spazio occupato dalla musica internazionale viene restituito ai cantanti argentini. Nelle intenzioni governative questo doveva servire a rinfrancare il regime, a creare un maggiore senso comune e di appartenenza nazionale; nella realtà, gli artisti rimasero come sempre fedeli a sé stessi e ai propri ideali, e le nuove politiche si rivelarono un boomerang per il regime.
Charly, Spinetta e gli altri si presero tutto il nuovo spazio che gli veniva concesso, e ne approfittarono per recuperare il tempo perduto, approfittando anche della minore attenzione di un regime in crisi come mai e impegnato su più fronti. I concerti, di nuovo eventi pubblici, tornavano a essere piazze di incontro dove giovani e appassionati si ritrovavano a cantare canzoni sommerse e imparate di nascosto.
La svolta simbolica e decisiva arrivò il 16 maggio 1982, nel pieno della tensione per la guerra delle Malvinas. I militari autorizzarono il Festival de la Solidariedad Latinoamericana, un segno di apertura al popolo e, soprattutto, un’occasione per raccogliere fondi da destinare ai soldati al fronte. Le cose, però, non andarono come previsto. Allo stadio di rugby di Buenos Aires si radunarono 70mila persone nonostante una giornata piovosa, involontaria citazione del festival di Woodstock. Con Charly García a fare da mattatore, sul palco si alternarono tutti i grandi del rock: Spinetta, Litto Nebbia, Leon Giéco, Rubén Rada e tanti altri.

UN INNO PACIFISTA
La manifestazione si trasformò in un inno alla pace e tutti gli artisti ne approfittarono per lanciare messaggi di speranza ai propri connazionali, ma anche di supporto ai fratelli musicisti inglesi.
Leon Giéco cantò la sua canzone più celebre, fino a quel momento censurata, Solo le pido a Dios, una disperata accusa alle dittature più sanguinarie del periodo, quella argentina e quella di Pinochet del vicino Cile. Spinetta, dopo aver esordito con un emozionato discorso pacifista in cui sosteneva che i veri perdenti della guerra erano i soldati e le loro famiglie, suonò in versione acustica Maribel se durmiò, un brano a sostegno del movimento delle Madri di Plaza de Mayo, al tempo ancora inedita e, per ovvi motivi, ancora introvabile nelle registrazioni ufficiali del concerto. La canzone, scritta durante la convalescenza del figlio malato, si ispira alla Nona Sinfonia di Beethoven, che il Flaco considerava un antidoto a tutti i mali.
È per questo che, in un secondo momento, pensò di dedicarla alle madri dei desaparecidos, perché potessero cantare in loro onore, e non soltanto piangerli. Nel testo, Spinetta si rivolge a una ragazza, Maribel, che si è «addormentata», espressione usata al tempo per parlare delle tragiche scomparse dei giovani argentini: «Canta, canta tutta la vita, canta con emozione. E quando te ne andrai, sentirai una brezza di libertà. Canta con me, canta anche se sei distante. Canta con me i tuoi dolori oggi…».

L’ULTIMA ONDA
Da qualche anno, in un contesto diverso e più vivace che mai, si sta imponendo una nuova generazione di musicisti che da Mendoza, città tanto speciale quanto misconosciuta, sta spostando di forza le coordinate della mappa del rock argentino, fino a poco tempo fa specialità quasi esclusiva della capitale.
Mendoza si trova nel cuore dell’Argentina, ma è più vicina a Santiago del Cile che a Buenos Aires. Vista dall’alto è una grande macchia verde, chiusa tra due paesaggi unici: da una parte, il rosso arido della regione desertica di Cuyo, dall’altra il bianco eterno dell’Aconcagua, la cima più alta delle Ande.
La scena mendocina è formata da ragazzi nati a dittatura già sconfitta, ma che hanno vissuto la crisi del 2001 e che hanno trovato nella musica una valvola di sfogo, una passione comune, un modo per divertirsi. Dal prog al punk, dall’indie al cantautorato, blues e psichedelia: in tutto una dozzina di band, che in pochi anni sono passate dal darsi il cambio nelle sale-prove cittadine a farlo nelle line-up dei festival più importanti del continente. Questi ragazzi sono riusciti ad assimilare gli insegnamenti dei padri del genere e con la stessa passione li hanno saputi elaborare, trasformandoli e amalgamandoli a linguaggi diversi, internazionali ed allogeni, aiutati anche dalle scoperte fatte in rete. Il risultato è un ibrido inconsueto, che unisce la musicalità del cantato in spagnolo a un impianto sonoro più ricercato e maturo rispetto alla tradizione, finalmente pronto a oltrepassare le frontiere che separano l’America Latina dal resto del mondo non ispanofono.
Una caratteristica fondamentale è la solidarietà e l’amicizia reciproca che lega tutti i componenti della scena, che si supportano a vicenda non curandosi di invidie e competizioni. Non è difficile trovare il batterista dei Perras On The Beach suonare il basso per gli Usted Señalemelo, il cantante de Las Cosas que Pasan fondare il progetto alternativo dei Lavanda Fulton o trovarli tutti insieme sullo stesso palco, o in studio di registrazione, per jam session improvvisate e collaborazioni.

LUCA BOCCI, UN INCONTRO
«Mendoza è sempre stata una terra fertile, ma con una mentalità chiusa e conservatrice, ed è proprio questo che sta cambiando ora». Luca Bocci è l’interlocutore ideale per capire meglio quello che sta succedendo a Mendoza, e ha accettato di rispondere alle nostre domande poco prima del concerto del suo ritorno a casa, al Teatro Independencia. Ha poco più di vent’anni, anche se il sorriso sicuro e sornione e la chioma di riccioli neri un po’ fuori moda lo fanno sembrare più grande della sua età. Suona in due band, gli Alicia e gli Hojarasca; ha da poco concluso un tour con Las Luces Primeras e in questi giorni sta registrando, come produttore, il nuovo disco dei Perras On the Beach. Ma, soprattutto, alla fine dell’anno appena concluso è finito in cima alle rituali classifiche di fine anno con il suo primo album solista, Ahora. Un risultato straordinario per un album pubblicato senza il supporto di un’etichetta discografica, ma diffuso solo online: Bandcamp, Spotify e YouTube.
Ahora è stato registrato totalmente in casa, con l’aiuto di qualche amico fidato in nome del fai-da-te più puro e orgoglioso. Eppure, al netto della poca strumentazione utilizzata, il risultato è una prova di maturità sorprendente. Un album pop, semplice e diretto; dieci tracce intime, i cui testi sanno cambiare agevolmente registro: dal romantico al poetico, dall’impegnato allo scanzonato ma sempre mantenendo sincera genuinità e purezza. I riferimenti musicali sono evidenti, ma altrettanto manifesta è la voglia di trovare una propria strada.
«Il rock nacional per me rappresenta un patrimonio, un’eredità – racconta -. Ho conosciuto la musica di Charly, Spinetta e gli altri da piccolo, e negli anni mi ha fatto girare la testa. In parte è stato grazie a mio padre, che in casa ascoltava questa musica, ma il resto è stata curiosità mia. Ho voluto rendere omaggio al genere, pur appartenendo a una generazione completamente distinta e tecnologica».
Un altro punto di contatto con i grandi del rock nacional è la sensibilità per i temi politici e sociali; le priorità sono cambiate, ma le problematiche da affrontare sono ancora tante. Continua: «La possibilità di rivolgersi alle persone e trasmettere un messaggio è qualcosa di meraviglioso, ma richiede un’attenzione particolare. Sento tanto questa responsabilità, certi temi hanno sempre avuto grande importanza per me. Una priorità assoluta per me è la lotta al machismo, alla mentalità sessista che ancora è dominante in tanti strati della società, anche in campo artistico». In ogni foto promozionale, così come nelle locandine dei concerti, Luca appare con il rossetto sulle labbra. «È un’idea nata quasi per gioco -dice -, una provocazione, ma è divertente pensare che possa dare fastidio a qualche ’benpensante’. Sono piccole cose, ma penso che la musica possa aiutare in maniera decisiva a rompere gli schemi di una società troppo spesso ingiusta».
Comunicabilità e immediatezza sono infatti aspetti fondamentali, che lo hanno convinto a intraprendere un progetto solista, per esporsi più liberamente e fare i conti con le proprie specialità e debolezze: «È stata una sorta di sfida personale, un tentativo di trovare la forma più autentica del mio modo di esprimermi e della mia scrittura. In passato ho sempre scritto testi più criptici, difficili da capire. Con Ahora volevo lanciare un messaggio altrettanto importante, ma in maniera più diretta e universale. Ho cercato di utilizzare tutti gli elementi che avevo a disposizione, dalla tradizione alla tecnologia, dal romanticismo all’ironia».
È energia pura quella che viene da Mendoza. D’altronde, come visto, l’importante è non fermare mai il progresso. Lo cantava anche Spinetta, coi suoi Pescado Rabioso, nella splendida Cantada de Puentes Amarillos: «Anche se mi costringessero, non dirò mai che il passato era meglio. Il domani è sempre migliore…»