Nella conversazione che chiude il viaggio intorno al mondo seguendo pietre e cemento di Architecton, Viktor Kossakovsky chiede a Michele De Lucchi, l’architetto che è un po’ il suo riferimento: perché tanto costruire se poi si distrugge e questi materiali diventano rifiuti? Non c’è possibilità di farlo meglio? L’altro che si dispiace di progettare i nuovi grattacieli a Milano gli risponde che sicuramente il modo c’è ed è quello di rendere le architetture più organiche così che al posto dei detriti si può lasciare qualcosa che si trasformi. Che film è dunque Architecton, con cui il regista di Gunda torna a confrontarsi con il tema dell’ambiente nelle sue diverse (e possibili) implicazioni? Sicuramente un film-mondo, a cominciare dal titolo ispirato all’«Architecton» di cui parla Tolstoi in Guerra e pace, di quelli cioè che sulla loro ideale tastiera delle possibilità seguendo la linea più dichiarata e si aprono continuamente a altri interrogativi e direzioni.

IL PROLOGO ci porta in Ucraina, il drone sorvola i palazzi sventrati, le mura bruciate i tetti volati in terra, accartocciati su sé stessi. Tutto è fermo, come se la vita quotidiana fosse sparita in un istante. Cosa rimarrà di quel cemento, di ciò che nei secoli ha preso il posto della pietra? Detriti, macerie, rifiuti. Un paesaggio che nel mondo si ripete, si somiglia ovunque pure se le ferite che lo attraversano hanno cause diverse. Da qualche parte le ruspe scavano e caricano ciò che rimane dei palazzi sui camion. Ce ne saranno altri al loro posto?
Nato in Russia, a Berlino da diversi anni forse per la difficoltà di vivere nel regime putiniano, durante l’incontro coi giornalisti seguito alla proiezione del film, in concorso, ha detto: «Quando la guerra è scoppiata, pensavo di dover interrompere il film, ma poi ho deciso di seguire la via di Piranesi: quando disegnava le rovine, nessuno gli credeva». I nostri palazzi durano quarant’anni, millenni fa si costruiva con una responsabilità. Dobbiamo dire basta a questa architettura nociva (Viktor Kossakovsky)
E Architecton, che costituisce con i precedenti Vivas las antipodas! (2011) e Aquarela (2018) una trilogia, è cambiato dopo l’invasione dell’Ucraina e dopo la pandemia, un film sull’architettura non bastava più ma il lavoro era già iniziato e si doveva finirlo. «Quelle immagini di rovine nelle città ucraine parlano più chiaro di qualsiasi documento. Mostrano ciò che è accaduto lì e cosa provoca l’impatto di un missile» dice il regista. Da qui ci si muove fra altre rovine, case abbandonate e rose dal tempo, le pietre dei templi che qualcuno cura da decenni con dedizione, dove si stagliano imponenti le megaliti a Baalbek, in Libano; gli anfiteatri, le tracce di culture più antiche e lontane non solo occidentali. E poi altre rovine di oggi nelle città devastate dal terremoto in Turchia. «Con il cemento con cui costruiamo ora gli edifici resistono quarant’anni, le costruzioni dei romani, o di civiltà precedenti, sono ancora qui dopo millenni. Quelle persone avevano una responsabilità che noi non abbiamo. Dobbiamo svegliarci, dire basta, gli scienziati devono mettesi a lavoro su questo. Stiamo vivendo una vera pandemia di architettura noiosa e dannosa, in questo momento 700 montagne stanno scomparendo perché continuiamo ad estrarre pietre per il cemento» afferma il regista..
Intanto De Lucchi sotto un nevischio di pioggia traccia un cerchio di pietre nel giardino di casa che non dovrà mai essere calpestato da un umano. L’inverno si schiude alla primavera, nel cerchio l’erba cresce in fretta proprio come accade fra le rovine, laddove l’uomo è andato via e la natura col tempo afferma con decisione la sua presenza. «Quello che facciamo, come specie, è soprattutto uccidere. Pensiamo alla quantità di animali che vengono uccisi ogni giorno, perché ci stupiamo se poi ci uccidiamo tra noi?» chiosa Kossakovsky.

IN QUESTA riflessione realizzata con immagini di respiro a volte fin troppo magniloquente, la relazione fra l’umanità e l’ambiente appare sempre più lontana, come se a sfigurarlo sia qualcosa che in sé contiene già il segno della distruzione: città costruite e devastate soprattutto da guerre, poi ricostruite di nuovo e forse di nuovo polverizzate. Un cemento che divora, che si riproduce, che sembra non voler lasciare un millimetro di vuoto. La narrazione del mondo attraverso l’architettura appare con un conflitto costante, che l’autore prova a cogliere nel rischio di esserne lui stesso sovrastato.