Il 26 febbraio scorso, decine di corpi sono stati trascinati dalle onde del mare in tempesta sulla spiaggia di Steccato di Cutro, in Calabria. Si trattava di migranti – circa 200 persone – partiti con un peschereccio dalla Turchia che, forse per una secca, si è spezzato. Quello di Crotone è il naufragio più grave avvenuto sulle coste italiane dal 2015. La reazione è la stessa: piangere la morte senza interrogarsi seriamente sullo scenario, giuridico e politico, in cui eventi del genere hanno luogo.

Nelle sue dichiarazioni a caldo, il Ministro Piantedosi ha dato prova evidente di un atteggiamento improntato alla rimozione e, allo stesso tempo, alla colpevolizzazione morale pronunciando frasi inaccettabili: in sostanza, ha definito “irresponsabili” le persone morte nel naufragio e ha colpevolizzato la loro scelta di partire.

In qualità di studiose e studiosi che, da molti anni, analizzano i fenomeni migratori e le politiche migratorie, sentiamo l’urgenza di prendere posizione sul tema, sottolineando la gravità delle affermazioni del Ministro e l’inconsistenza degli assunti sui cui si fondano. In particolare, ci preme fare chiarezza su alcuni punti.

Le persone che cercano di raggiungere le coste italiane si muovono in un contesto istituzionale caratterizzato da regole ben precise, che limitano e costringono il movimento. Chi tenta un percorso di “migrazione internazionale” è costretta/o a pagare per attraversare il Mediterraneo, esponendosi al rischio di vessazioni, umiliazioni o addirittura torture, e non ultimo della vita, perché difficilmente riesce a ottenere un titolo di viaggio legale. Un rischio legato alle regole del gioco istituzionali decise da stati sovrani che esercitano la giurisdizione sul “proprio” territorio e ne definiscono entrate e limitazioni. Non si tratta di un mondo “naturale”, ma di una costruzione sociale e storica, che per questo potrebbe essere mutata.

Nessuna persona è “irregolare” o “clandestina” per natura; lo è in quanto esiste un sistema giuridico che la rende tale, condizionando la sua esistenza materiale e vincolando la sua capacità di movimento. Non possiamo quindi accettare una narrazione che colpevolizza chi “parte senza prudenza”, sapendo bene che chi cerca di raggiungere le coste italiane è costretta/o a intraprendere un percorso di mobilità in una condizione giuridica “negativa”. Non possiamo accettare narrazioni di questo tipo soprattutto quando provengono da attori istituzionali che conoscono le regole del gioco che loro stessi contribuiscono a stabilire, come i Ministri della Repubblica italiana di diversi e contrapposti schieramenti politici che si sono succeduti negli anni o i rappresentanti dell’Unione europea, la quale, nel corso dei decenni, ha contribuito alla costruzione di uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” selettivo su basi economiche o razziali.

Il dovere di soccorrere chi è in difficoltà non può essere messo in discussione né scavalcato dalle logiche securitarie o di difesa sociale. Numerosissime ricerche sul campo, condotte da studiose e studiosi così come da agenzie internazionali quali UNHCR e OIM, mostrano in maniera inequivocabile come le guardie costiere dei diversi paesi, responsabili dentro la propria zona SAR (Search and Rescue), abbiano adottato negli anni comportamenti inquietanti. Casi di inadempienza o di esplicita violenza – da parte della guardia maltese e di quella greca, per non parlare di quella libica, solerte nel condurre le persone “salvate” all’interno di campi di detenzione finanziati dai paesi europei, dando avvio a una spirale di ricatti, stupri e torture, che in diversi casi si conclude con la morte – sono all’ordine del giorno.

Le logiche securitarie non possono essere il pretesto per negare a chi cerca di raggiungere le coste italiane il diritto a chiedere asilo. Si tratta infatti di un diritto fondamentale, sancito da norme internazionali come le Convenzioni di Ginevra che, nei fatti, è compromesso proprio da leggi e regolamenti prodotti dagli stati e dall’UE. Come studiose e studiosi ci preme sottolineare quanto il modello italiano ed europeo di gestione delle migrazioni sia ambiguo e violento, come emerge chiaramente dallo scambio di accuse tra l’agenzia Frontex e la guardia Costiera italiana sulle responsabilità del naufragio, sul riconoscimento del (mancato) soccorso quale operazione di ricerca e salvataggio e sull’identificazione dell’operazione in chiave di law enforcement (operazione di polizia a difesa della sicurezza nazionale). È l’ambiguità del modello di gestione della mobilità a spingere le persone a nascondersi e a renderle facili prede di forme di sfruttamento economico radicale, nel campo del lavoro agricolo così come di quello sessuale.

A distanza di quarant’anni dal momento in cui l’Italia, da paese di (prevalente) emigrazione, è diventata un paese di (prevalente) immigrazione, ci sembra opportuno ribadire la necessità di:

  • mettere in discussione criticamente l’architettura istituzionale delle politiche migratorie chiedendo in particolare alle e ai rappresentanti delle istituzioni di prendere atto che categorie come status, confini, autorizzazioni al soggiorno e irregolarità non denotano fatti naturali ma sono costrutti, storici e sociali, che possiedono un carattere politico e non semplicemente tecnico: sono cioè altamente performative, essendo capaci di incidere profondamente sulla composizione della popolazione e sulle vite materiali delle persone;
  • aprire un dibattito più ampio e trasversale sulle cause della mobilità umana attuale e sugli scenari instabili – di tipo ambientale e bellico – che la generano, derivanti da squilibri “post” coloniali con scarsissimi passi in avanti per le culture e i progetti di pace globale e in assenza di un qualsiasi ripensamento sostanziale sullo sfruttamento delle risorse altrui e di un qualche investimento nella memoria critica del colonialismo (cosa di cui le generazioni a venire chiederanno spiegazione);
  • aprire un dibattito serio sugli effetti della criminalizzazione del confine e della gestione dei soccorsi in mare, ammettendo che, senza l’azione delle navi della flotta civile delle ong, quanto accade oggi nel Mediterraneo avrebbe conseguenze ancora più tragiche e meno visibili;
  • interrogarsi sul senso concreto degli strumenti giuridici di protezione e delle forme legali di migrazione che consentono alle persone di autodeterminare il proprio destino e di portare in salvo la propria vita facendo sempre prevalere la necessità di soccorrere le vite umane su qualsiasi altra esigenza politica di gestione dei confini;
  • attribuire incarichi istituzionali a persone che dimostrino di essere capaci di sostenere un confronto reale e rispettoso con chi studia la complessità dei fenomeni migratori contemporanei e con chi vive in prima persona l’esperienza della mobilità, qualità di cui – negli ultimi giorni ancora più che in passato – abbiamo tragicamente avvertito la mancanza.

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