Ha la voce sottile Apichatpong Weerasethakul, «Joe» come lo chiamano tutti. Minutissimo, gentile, Joe è tornato in concorso a Cannes, dove aveva vinto la Palma d’oro nel 2010 per Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, con il suo nuovo Memoria. Un film molto diverso, che segna un passaggio importante nel cinema del regista thailandese: per la prima volta lascia il paesaggio e le atmosfere emozionali del suo paese, la Thailandia, per spostarsi in Colombia, e lavorare con un cast internazionale, Tilda Swinton, che è la protagonista, e Jeanne Balibar.

Eppure questo film misterioso – premio della giuria insieme a Il ginocchio di Ahed di Nadav Lapid – che l’autore definisce una «nuova partenza», è disseminato dei segni che attraversano il suo cinema. Il titolo intanto, Memoria, una materia preziosa per Joe, le cui tracce sono, nella natura, nella giungla thailandese, sotto terra, laddove i segni di una storia non scritta, di una repressione celata, divengono visibili. La protagonista è un’archeologa (Swinton) che coltiva orchidee e sente esplodere nella testa un boato, un suono silenzioso a cui cerca di dare un volume. In questo universo popolato di apparizioni, fantasmi, in cui il tempo cola, gli archivi del mondo animale, vegetale e umano ci parlano di un tempo sospeso, e in esso illuminano la violenza di una contemporaneità che non ha luogo. Nel parliamo col regista, il giorno prima della premiazione.

Da cosa è nata la decisione di fare un film in Colombia e con attori internazionali?
Girare in Thailandia era divenuto troppo confortevole per me, conosco da molto tempo le persone con cui lavoro, so tutto, troppo e adesso avevo invece un po’ voglia di perdermi. Avevo molta curiosità verso la cultura latino-americana e soprattutto per la foresta amazzonica. Ho scoperto la Colombia grazie a un festival, qualche anno fa, mi avevano invitato per una residenza di quattro mesi che mi ha dato la possibilità di viaggiare molto attraverso il Paese. All’inizio pensavo di andare in Amazzonia, poi le persone e le città che scoprivo mi ,affascinavano, e ho deciso che il mio film sarebbe stato lì. La storia che conoscevo poco a poco della Colombia, il rapporto tra passato e presente mi ricordava per certi aspetti la Thailandia. Il paesaggio ha la stessa intensità vivente che si può percepire in quello thailandese; sentiamo la potenza della terra che trema, dei vulcani, l’energia della natura che i colombiani accettano come parte dell’esistenza. E che vi penetra in diverse forme, profondamente radicate nella cultura e nell’esperienza quotidiana, penso all’ayahuasca, che si utilizza normalmente. La dimensione spirituale in questo senso, anche se la religione cattolica ha un peso molto forte, si lega alla natura.

Ha definito «Memoria» una «nuova partenza», per la prima volta appunto non siamo in Thailandia anche se si possono ritrovare molti «luoghi» poetici riconoscibili del suo cinema. Può spiegarci meglio?
È una scommessa con me stesso, come regista volevo mettermi alla prova in un contesto che non fosse quello abituale, sentivo l’esigenza di passare attraverso una trasformazione che continuerà nei miei prossimi lavori; non credo che tornerò a girare in Thailandia presto anche perché non mi sento a mio agio, la giunta militare limita sempre più la libertà di espressione. Ci sono elementi che risuonano dei miei film, e credo che chi mi conosce possa vedere queste corrispondenze. Non volevo però fare un film politico sulla Colombia, che non è il mio paese; non voglio cercare di appropriarmi della memoria degli altri, ma la violenza che ho percepito in quel paese e nella sua storia esprime quanto sta accadendo da me.

Come vi siete incontrati con Tilda Swinton?
Era da tempo che stavamo pensando a un film insieme, dovevamo trovare la situazione giusta: doveva essere un luogo in cui entrambi eravamo stranieri e che aprisse i nostri sensi. Lavorando con lei ho capito perché ne sono così affascinato: Tilda non è un’attrice, non nel senso tradizionale, sul set lei si considera una parte della troupe. Si interessa alle inquadrature, ne studia la composizione, segue i movimenti della macchina da presa, è quasi un tecnico tra gli altri. È anche come se fosse una regista, è davvero meravigliosa.

Il personaggio che interpreta è quello di un’archeologa perseguitata da un rumore che le rimbomba in testa, che viene dalla natura. E per questo si perderà nella foresta tra allucinazioni e memorie.
L’idea viene da una mia esperienza, i primi tempi che ero in Colombia avevo la sensazione di sentire un boato che esplodeva nella mia testa e che, naturalmente, nessun altro sentiva. Il film cerca di comprendere le origini di questo suono interiore. Memoria è divenuto un viaggio interiore in un paesaggio misterioso che non capisco.

Cosa è cambiato per lei con la pandemia, quali sono stati i suoi sentimenti in questi mesi?
A Chiang, dove vivo, nel nord ovest della Thailandia, che era anche il luogo in cui abitavano i miei genitori, due medici. Il ritmo delle cose è molto lento, come il modo di parlare delle persone, e questo mi ha spinto alla contemplazione, a una prossimità con la natura, con gli animali. La calma esteriore è anche quella interiore. Ho letto molto, guardato pochi film. Nel lockdown col passare dei giorni sono diventato meno ansioso, e più cosciente di quanto sono preziosi la vita, il tempo. Credo che questa esperienza attraverserà a lungo la mia opera.