Dopo aver ingoiato un numero imprecisato di rospi, l’ex uomo simbolo della Lava Jato Sergio Moro ha avuto uno scatto di dignità, annunciando ieri le proprie dimissioni dal ministero brasiliano della giustizia e della sicurezza pubblica.

Vi era entrato come un supereroe, come il paladino della lotta alla corruzione, popolarissimo presso un’opinione pubblica avvelenata dalla propaganda anti-Pt e cieca di fronte alle contraddizioni già evidentissime della Lava Jato.

Ne esce fortemente ridimensionato, infangato dagli scandali, umiliato più volte da un Bolsonaro invidioso di lui, eppure incredibilmente ancora con un discreto livello di popolarità, perlomeno superiore a quello del presidente i cui misfatti ha fino a ieri coperto.

Si è congedato tra gli applausi dei giornalisti, che hanno apprezzato il modo in cui l’ormai ex superministro si è tolto qualche sassolino dalla scarpa, sorvolando sui macigni che peseranno per sempre sul suo nome.

La goccia che ha fatto traboccare un vaso che sembrava non dovesse mai riempirsi è stata la destituzione da parte di Bolsonaro del direttore generale della Polizia federale (Pf) Maurício Valeixo, uomo di fiducia dell’ex giudice, malgrado i più influenti generali del suo governo – a cominciare dal ministro della Casa civile Braga Netto – ce l’avessero messa tutta per convincerlo a non farlo.

Ma Bolsonaro, dopo aver inizialmente ceduto, ci ha ripensato subito volendo mettere le mani sulle indagini della polizia nei confronti dei suoi figli Flávio e Carlos, entrambi indagati per riciclaggio di denaro nel quadro dello schema di corruzione noto come rachadinha, quello che vede i collaboratori fantasma restituire buona parte del loro salario ai deputati o consiglieri municipali che li hanno assunti.

E proprio questa è stata la pesantissima accusa lanciata da Moro al presidente, che pure al momento della sua nomina gli aveva garantito totale autonomia: porre a capo della Pf una persona fidata che potesse passargli informazioni riservate sulla sua famiglia.

«Non spetta al presidente comunicare con Brasilia per ottenere dati secretati. Si tratta di un valore fondamentale che occorre preservare all’interno di uno stato di diritto», ha denunciato chi quello stesso stato di diritto ha preso a calci ripetutamente quando era giudice di prima istanza a Curitiba.

Quindi, provando a rispolverare il suo ruolo di paladino della giustizia, ha difeso «l’autonomia della Pf contro le interferenze politiche», benché all’interno della Lava Jato non abbia fatto altro che interferire con l’autonomia della Procura per i suoi scopi politici.

«La vergogna della sua partecipazione al governo Bolsonaro è eterna», scrive ora uno dei suoi principali avversari, Leandro Demori, caporedattore di Intercept, i cui reportage hanno mostrato al mondo cosa si celava davvero dietro l’immagine di imparziale e integerrimo arbitro della partita che Moro offriva di sé mentre complottava per escludere Lula dal processo elettorale.