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Il latte dei sogni scorre e si disperde in mille rivoli, bagnando anche le Partecipazioni nazionali, che provano a delineare nuove modalità di scambio e comunità basate non più (e non solo) sulla circolazione delle merci, in un’oscillazione tra utopie e distopie.
Nel sestiere di San Marco, nel bizantino Palazzo Malipiero che si affaccia sul Canal Grande, ha trovato casa il Padiglione del Montenegro, con la collettiva The Art of Holding Hands as We Break through the Sedimentary Cloud, curata da Natalija Vujoševic. La curatrice montenegrina ( anche artista) ha tematizzato lo sfaldamento del corpo sociale nel capitalismo globale. Questo scenario distopico, incarnato da un Paese impoverito dall’emigrazione delle forze giovani e dalla fuga dei cervelli, snaturato dal turismo mordi e fuggi, e debilitato dalla gentrificazione, viene da lei definito «deserto post-sociale», in cui gli artisti non sono chiamati solo ad esprimere ansie e inquietudini, ma anche a cercare riscatto con la potenza immaginifica.
Il percorso espositivo propone una selezione non soltanto intermediale, ma anche diacronica e globale, con il recupero dal passato di artisti inclusi nella Galleria d’arte dei Paesi non allineati «Josip Broz Tito», inaugurata nel 1984 a Titograd, nell’allora Jugoslavia. Tra gli artisti montenegrini in attività spicca Jelena Tomaševic, con la sua installazione Guilty Knowledge, che prende il titolo dalla terminologia giuridica per descrivere la situazione in cui un soggetto è a conoscenza di un’azione illegale, ma la ignora consapevolmente. Dante Buu, invece, presenta una serie di ricami astratti, da lui realizzati a mano, e che ricalcano una tradizione tipicamente femminile della sua regione di appartenenza, montana e musulmana, in una condizione di isolamento in cui l’autore ha incanalato diversi stati emotivi.
Per visitare il Padiglione della Repubblica del Kosovo bisogna spostarsi all’Arsenale. The Monumentality of the Everyday è la personale di Jakup Ferri, kosovaro che si divide tra il suo paese e l’Olanda, a cura della tedesca Inke Arns. Entrando nel padiglione ci si ritrova in una capsula scintillante di colori, con opere che invadono e ricoprono completamente le superfici, una sorta di rampa per skateboard rivestita di tappeti. Lo spazio, dagli angoli curvi, sembra l’interno di un sottomarino. I dipinti a olio sono realizzati da Ferri, mentre tutti i tessuti sono realizzati, alla maniera tradizionale o anche con macchinari, da donne albanesi e kosovare. Un mondo favolistico che è anche un’esplosione di colori, memore dell’immediatezza dell’arte popolare. «Il titolo della mostra – dichiara la curatrice – sembra contraddittorio a una prima lettura: la monumentalità normalmente esclude il quotidiano. Non ci sono monumenti alla vita di ogni giorno. In ogni caso la mostra di Jakup Ferri potrebbe essere il primo monumento al quotidiano. La sua vera ispirazione nasce da microrganismi irreali, quasi visti al microscopio. I dipinti figurativi e i ricami sono figli dei disegni leggermente surreali che raffigurano la vita di ogni giorno con animali, bambini, acrobati e architetture utopiche. Ci sono interazioni poetiche tra le persone, le creature e gli oggetti che suggeriscono nuove modalità di comunicazione tra le specie».
Sempre all’Arsenale si trova il Padiglione dell’Albania, che con la personale – ormai retrospettiva data la sua recente scomparsa – Lumturi Blloshmi. From Scratch presenta per la prima volta un’artista sconosciuta al panorama internazionale.
Considerata oggi come una dei più interessanti artisti albanesi del suo tempo, è stata marginalizzata durante tutta la sua esistenza. Sorda dall’età di cinque anni, oppressa dal regime per ragioni politiche, donna in un ambiente di uomini, il suo lavoro non è stato ancora degnamente esposto e studiato. Se n’è fatta carico la curatrice Adela Demetja: «Si tratta di una mostra concepita per riposizionare il suo lavoro nel contesto dell’arte internazionale. La selezione di opere spazia dagli anni 60 al decennio 2010, e include autoritratti e realizzazioni pittoriche e fotografiche, che raccontano molto della sua essenza estetica così come del contesto politico e sociale in cui sono state create. Il cuore della mostra è rappresentato da una serie di autoritratti, il più antico è un dipinto del 1966, mentre l’ultimo è una fotografia del 2018. L’artista si è spesso raffigurata in dipinti, performance e fotografie, ricostruendo attraverso la soggettività una relazione tra se stessa e il contesto sociopolitico». È scomparsa nel novembre 2020 per complicazioni dovute al covid, chiudendo una parabola artistica ed esistenziale ancora tutta da scrivere.