Vestiti a puntino, in abiti scuri appena stirati, in testa i turbantoni. Le foto che circolano sui social media mostrano Haji Mali Khan, Hafiz Rashid e Anas Haqqani, tre autorevoli esponenti dei Talebani, pronti a uscire dalla prigione. In cambio del rilascio dello statunitense Kevin King, 63 anni, e dell’australiano Timothy Weeks, 50, due docenti della American University of Afghanistan sequestrati a Kabul nel 2016.

Un boccone amaro, una scelta «difficile ma necessaria», l’ha definita ieri il presidente Ashraf Ghani annunciando lo scambio di prigionieri in diretta televisiva. Assicura che servirà a favorire la pace e il negoziato diretto con i Talebani, che finora hanno preferito parlare con Washington – arrivando quasi alla firma di un accordo – , non con Kabul.

Nel negoziato la «carta Anas Haqqani» vale come jolly. Figlio di Jalaluddin Haqqani, fondatore dell’omonima rete jihadista, fratello dell’attuale leader del gruppo e numero due dei Talebani Sirajuddin, Anas Haqqani è forse il prigioniero più prezioso custodito nelle carceri afghane (ma nella base di Bagram, controllata dagli americani).

Liberarlo significa fare compromessi con l’ala più oltranzista del movimento, autrice di stragi sanguinarie e contigua con l’establishment militare pachistano. A inizio anno i Talebani ne avevano chiesto il rilascio. Il 23 luglio il primo ministro pachistano Imran Khan aveva assicurato a Donald Trump che gli avrebbe presto portato «buone notizie» sui docenti universitari sequestrati dagli Haqqani.

Due giorni fa, la visita a Kabul del direttore dei servizi segreti pachistani Inter-Services Intelligence. Ieri il discorso di Ghani. Che dà l’annuncio, ma ha soltanto avallato lo scambio, ancora non concluso e figlio di un dialogo diplomatico internazionale.

L’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, poche settimane fa ha incontrato informalmente a Doha, in Qatar, i rappresentanti della delegazione talebana proprio per discutere lo scambio di prigionieri. Atto preliminare: è l’unico modo per ricucire in tempi brevi lo strappo improvviso del 7 settembre, quando Trump ha mandato all’aria il negoziato tessuto a Doha da Khalilzad e vicino alla conclusione. Ora Khalilzad mostra a Trump un segno concreto. Si può andare avanti. Potrebbe essere il via libera degli Stati uniti alla ripresa dei colloqui.

Avallando lo scambio, Ghani spera di assicurarsi il dialogo diretto con i Talebani fin qui negatogli. Forse di più: il sodale Amrullah Saleh fa sapere che il «bicchiere mezzo pieno» non è stato ancora pubblico. Si riferisce al cessate il fuoco di un mese richiesto pochi giorni fa dal governo. Portarlo a casa sarebbe un bel colpo.

Ma se tenere gli Haqqani dentro la partita negoziale di Doha è l’unico modo per fargli abbassare il tiro militare, non è detto che funzioni sul lungo termine. Potrebbero ridurre gli attacchi ora e tornare ad alzare il tiro una volta ottenuto il ritiro degli americani. Che non è imminente, ha dichiarato il generale Mark Milley, portavoce del Joint Chiefs of Staff degli Stati uniti: le truppe americane resteranno «per molti anni ancora».