Attacco all’ambasciata russa a Kabul e ai Talebani. È duplice l’obiettivo dell’attentato che ieri mattina ha colpito la sede diplomatica di Mosca nella capitale afghana lungo la strada Darulaman, mentre diversi afghani erano in coda in attesa di presentare richiesta di visto. Il bilancio ufficiale racconta di 6 morti, tra cui 2 impiegati dell’ambasciata, un diplomatico e un addetto alla sicurezza.

LA PORTATA SIMBOLICA è però molto maggiore: l’attentato arriva nel pieno della campagna dei Talebani per convincere le capitali regionali e non solo a tornare nel Paese e ad ampliare il corpo diplomatico. E si somma ai diversi attentati che nelle ultime settimane hanno materialmente contraddetto la loro principale rivendicazione: aver portato sicurezza e stabilità nel Paese.

Obiettivo sono i Talebani e il loro Emirato, colpiti mentre cercano di traghettare il movimento dalla guerriglia ai ministeri. Ma obiettivo è anche la Russia, uno dei pochi Paesi ad avere tenuto aperta la propria rappresentanza in Afghanistan e tra quelli che, nell’estate 2021, hanno dato il “via libera” all’offensiva militare che avrebbe poi condotto al potere i Talebani. A Mosca e alle altre capitali regionali i Talebani avevano promesso inclusività, governo ampio.

PROMESSE NON MANTENUTE, ma i rapporti sono rimasti buoni. In virtù di un nemico comune: la “Provincia del Khorasan”, branca regionale dello Stato islamico, a cui molti guardano come responsabile dell’attentato di ieri sulla Darulaman Road. Ma se i Talebani non sono in grado di proteggere l’ambasciata russa a Kabul, come potrebbero proteggere la “cintura di sicurezza russa” dalle infiltrazioni dei jihadisti operanti tra Afghanistan e Pakistan?

Per ora, i rapporti tra Kabul e Mosca tengono. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ieri si è augurato che i responsabili siano trovati e puniti presto e ha annunciato che la sicurezza del perimetro esterno all’ambasciata è già stata aumentata, grazie alla collaborazione con le autorità afghane. In serata è arrivata anche la telefonata con il ministro di fatto degli Esteri dell’Emirato, Amir Khan Muttaqi. Frasi di circostanza, dall’una e dall’altra parte. A testimoniare però che i rapporti non sono guasti.

ABDUL QAHAR BALKHI, portavoce del ministero degli Esteri, ha dichiarato che “l’Emirato non permetterà che i nemici sabotino i buoni rapporti con la Federazione russa».

La verità è che anche tra i Talebani c’è chi ritiene che il rapporto con i russi non sia del tutto legittimo, o che non vada consolidato troppo, nonostante l’isolamento diplomatico internazionale dell’Emirato. Una parte dei Talebani imputa infatti a Mosca una politica troppo muscolare verso i musulmani nella Federazione russa e verso i gruppi jihadisti nella cintura di sicurezza russa, con i quali Mosca ha sempre usato le maniere forti. E molti non perdonano a Mosca i bombardamenti sulle città siriane.

D’ACCORDO IL BISOGNO DI SOLDI e riconoscimento – questa la posizione – ma farsela con i russi è troppo. Il discorso dovrebbe valere anche per Pechino, che fa carta straccia dei diritti degli uiguri musulmani nel Xinjiang, ma la Cina porta un capitale politico ed economico molto maggiore: i Talebani chiudono gli occhi.
A non chiudere gli occhi sulle contraddizioni dei jihadisti talebani, capaci di firmare perfino un accordo di “pace” con gli odiati americani, sono i militanti della Provincia del Khorasan. Per i quali il ritorno al potere dei Talebani è frutto della resa agli americani con l’accordo di Doha del febbraio 2020.

LA PROPAGANDA contro i Talebani, colpevoli di aver perso la retta via del jihad, di aver ceduto alle lusinghe del potere e del lusso, di aver tradito l’Islam per un etno-nazionalismo pashtun, va avanti da mesi e mesi. Parte centrale della campagna è la raffigurazione dei Talebani come docili servi della potenza imperialistica russa. Governata da miscredenti e ostile ai musulmani. La colpa delle autorità di fatto afghane, dicono i jihadisti duri e puri dello Stato islamico, è aver svenduto il jihad per accordi commerciali e politici.