Elena Granata insegna urbanistica al Politecnico di Milano. Nel suo lavoro studia gli inventori di luoghi o «Placemakers», dal titolo del suo saggio pubblicato da poco per Einaudi e dedicato a chi ha saputo cambiare, spesso dal basso, gli spazi urbani. La pandemia ha cambiato il volto alle città e ha sottolineato l’importanza della cura di prossimità, dal punto di vista della medicina territoriale ma anche sul piano sociale. Riformare i servizi, dal welfare alla sanità e alla scuola, oggi significa immaginare nuovi territori.

Professoressa Granata, chi sono esattamente i «placemakers»?

I luoghi sono sempre «inventati» da qualcuno e i placemaker sono proprio gli inventori del tempo quotidiano. Partono da un luogo e sanno immaginarne una seconda vita. Sono figure trasversali alle professioni: architetti ma anche insegnanti, preti, sindaci, poeti.

Qualche esempio?

Volterra, l’unico carcere che ha una compagnia teatrale stabile permanente. Questo è l’approccio del placemaking: il teatro in un carcere crea uno spazio ibrido. Antonio Loffredo, parroco del rione Sanità a Napoli. Ha creato una palestra di boxe in una cappella della basilica di S. Maria. Ci porta i bambini del rione. Qui la chiesa diventa anche luogo di riscatto. Oppure il sindaco di Viganella Franco Midali, che non ri rassegna all’oscurità del versante della montagna su cui è sorto il paese e che rimane in ombra perenne per mesi. E così, insieme all’architetto Giacomo Bonzani inventa uno specchio basculante, che devia la luce del sole verso il paese. Lo si può visitare: è un progetto di recupero, d’arte e di architettura.

Nel suo libro parla di «città (ancora) patriarcali». Cosa significa?

Parlo di città plasmate dai rapporti di forza e quindi di genere. In cui la città è divisa per funzioni e contenitori: la scuola per l’educazione. i musei per la creatività, le caserme per l’ordine pubblico, gli ospedali per la salute. Oggi ci rendiamo conto che una città non può funzionare per contenitori, ma servono legami. Basta pensare alla separazione tra città e campagna, che oggi è superata perché bisogna portare la campagna in città, con la natura e il verde, e la città in campagna quanto a infrastrutture e connessione.

Anche il virus è stato un «grande urbanista»?

La pandemia ha condotto a scelte che avremmo potuto fare anche in condizioni di normalità, come l’accesso ai parchi, l’apertura di piste ciclabili, la sottrazione di spazio per le automobili a favore dei nuovi dehors. Il virus ha forzato la mano sul cambiamento senza creare troppi conflitti. Si è sviluppata una nuova consapevolezza: gli ospedali non sono l’unico luogo dedicato alla salute, che invece è un bisogno trasversale a tutti i tempi della vita nello spazio urbano.

Ora la politica risponde alla pandemia con la realizzazione delle «case di comunità».

Non è un’idea nuova. Abbiamo già cercato di portare a livello di comunità la salute. Si pensi alla riforma di Basaglia sulla salute mentale e alle sperimentazioni avviate nelle asl triestine. Anche se nelle case di comunità alla salute mentale si è data poca importanza. Allora vedo un rischio grande, quello di spendere molti soldi per costruire le «case» senza poi farci entrare la «comunità». Di nuovo, tendiamo a privilegiare la costruzione dei contenitori piuttosto che favorire i processi. Le case rispondono a un bisogno chiaro: la salute non è l’ospedale e richiede prossimità. Ma allora non perché non si prevede l’assunzione di nuovi medici, infermieri e operatori sociosanitari?

Da anni la sociologia ha parlato di uno spostamento della popolazione verso le città. Ma lo smart working e il commercio online a volte sembrano svuotarle di senso. Che futuro hanno le città?

Tutte le previsioni parlano di un aumento globale della popolazione che vive in città, e questo ha fatto pensare erroneamente allo sviluppo di megalopoli. Ma se guardiamo i dati ci rendiamo conto che a livello planetario si vive soprattutto in piccole città. Quindi c’è un errore in questa narrazione: tutti pensiamo a Bombay o Londra, ma invece si parla di Empoli o Lecce. Il fatto che città medio-piccole semplifichino la vita è tuttora valido. Ad esempio, rendono più facile l’accesso al welfare. Quindi prevedo una forte tenuta del tessuto urbano. Ciò che non si è capito è che la domanda di città è cambiata. A Milano, ad esempio, c’è un movimento di cittadini che si spostano non in campagna, ma in provincia, alla ricerca del verde urbano. Anche in città come Roma, i parchi urbani non sono mai stati così frequentati: si va al parco piuttosto che andare fuori porta. Si cerca la campagna nella città. E questo, di nuovo, sta facendo saltare la dicotomia tra città e campagna.

In che modo?

La città ha bisogno della campagna almeno su due piani che ritengono fondamentali. Il primo è quello energetico: la transizione ecologica richiede lo sviluppo di nuove comunità energetiche. Questo richiede investimenti in infrastrutture per le energie rinnovabili che implicano un nuovo dialogo tra città e campagna. Il secondo è quello alimentare. Per raggiungere l’autonomia alimentare le città hanno bisogno di bacini agricoli di prossimità intorno agli insediamenti urbani. Faccio di nuovo l’esempio di Milano che da questo punto di vista è a buon punto: la città è in sostanziale equilibrio dal punto di vista alimentare tra quello che consuma e quanto si produce nel suo bacino agricolo. Questo equilibrio va esteso a tutte le città.

Quelle dei placemakers sono spesso storie di indipendenza e autogestione. La politica istituzionale è ancora uno strumento di governo della città?

Non c’è conflitto tra istituzione e iniziativa dal basso, servono l’una e l’altra. La trasformazione delle città avviene spesso grazie al protagonismo dei loro sindaci. Penso in generale ai «sindaci pedagogisti» delle città colombiane. E in particolare alla battaglia per i diritti LGBT+ della sindaca di Bogotà Claudia Lopez Hernandez. Hernandez è stata l’unica al mondo ad aver programmato un lockdown di una settimana prima che in Colombia arrivasse il virus per studiarne l’impatto e prendersi cura dei punti deboli della cittadinanza. Altrove le innovazioni partono dal basso. C’è bisogno di sindaci che sappiano attivare i processi dal basso e viceversa. Dove c’è un «placemaker» si sviluppa l’aspirazione a dire «anche io so fare qualcosa». E le persone si sentono titolate a prendersi carico dei loro problemi.

Elena Granata parteciperà a Roma al convegno «8words 2022: le parole dell’innovazione in sanità» in programma martedì 24 maggio dalle ore 10 al Palazzo delle Esposizioni di Roma.