E mi vengono i brividi, brividi, brividi/ Tu, che mi svegli il mattino/ Tu, che sporchi il letto di vino. Sono i tipici prodromi di Omicron o un trucido sogno scespiriano? Il reggicalze di Mahmood fa il paio col tatuaggio arzigogolato di Blanco, scritta Celeste, una vaga pubblicità grillina? No, i consigli per gli acquisti sono chiari, espliciti, sfrontati. E vengono spesso interrotti dalle 25 canzoni in gara. Dum-du-dum, l’orchestrona coi cori e gli archi, acconciature fragranti e vestiti pugni nell’occhio o forse Ditonellapiaga. Rkomi, Yuman, IKrama, Aka7even, Tananai, inno alla diversità linguistica o apparente voglia di trasgressione? Meglio la serata cover per smuovere le acque di questo ecumenico Sanremo, Ama ter, dove tutto è grande, straordinario, magnifico (ipse dixit).

DA 72 EDIZIONI, vecchi leoni, qualche cariatide e giovani virgulti (tifo spudoratamente per Matteo Romano) si alternano sulla piazzetta cittadina, lo scalone coi fiori, l’unico vero palco democristiano in grado di fagocitare, rimasticare e sputare tutto. Col suo tema dell’inclusione declinato in tutte le salse, dalle mise ai discorsi, dalle parolacce agli abbracci, che va molto più in alto della stoppata legge Zan, puntando dritto alle famigliole riunite davanti al piccolo schermo. Sanremo è Sanremo, termometro delle trasformazioni del costume (e non ci riferiamo al confettone Orietta Berti) in atto, piercing e capelli viola, spilloni e acqua maledetta. Diversitàaaa.

SE FIORELLO E ZALONE sono obbligati a scherzare con la pandemia e i No Vax («attento al braccio che parte da solo, è il grafene»), Drusilla Foer e Lorena Cesarini possono raccontare razzismo e discriminazioni, tuttavia il gran cerimoniere serale si può permettere persino il finto bacio al direttore di rete, più Caniggia e Maradona che Bergman e Grant. Non poteva mancare l’apprezzamento di Sergione, ultrà della tigre di Cremona, dc storico, né più né meno di Letta, Renzi, Casini, Franceschini, quelli di sinistra, tutti col biancofiore in petto come il Pippo nazionale, trasformato in Baudi, la criptomoneta del festivàl. E persino la platea dell’Ariston, in piedi o a ballare (seguendo le scritte in sala) sembra trasmettere la voglia di andare avanti, di festeggiare non si sa bene che, di afferrare lo svago effimero e sfuggente. E plaudire all’ensemble Berrettini, che meraviglia di famiglia, tutti alti, belli e bravi, uno spot per l’Italia nel mondo. E mandare un saluto a zia Mara o dire papalina sono le criptate parole d’ordine di Fantasanremo, giochino inventato da appassionati marchigiani, un cazzeggio perpetuo su ogni argomento.
Il Fantasanremo, quello che immaginano soldati russi e occidentali sulla frontiera ucraina, quello che vorrebbero diverso le manifestazioni degli studenti, quello che vuole prendere in giro portiere e parrucchiere, quello delle generazioni adolescenziali tra Tik Tok e Instagram, marchingegno per pompare gli indici d’ascolto. Tanto che persino i facoltosi dirigenti olimpici del Cio sottolineano la necessità di «unire l’umanità in tutte le sue diversità» e s’appropriano di Give peace a chance, con John Lennon nell’avello a fare le stesse capriole di Jovanotti. E mi vengono i brividi, brividi, brividi.