Il capo degli aiuti delle Nazioni unite Mark Lowcock aveva avvertito il Consiglio di sicurezza che il conflitto nel Tigray avrebbe potuto innescare una più ampia destabilizzazione nel Paese e che la situazione umanitaria nel nord era destinata a peggiorare. Il governo etiope è stato così sollecitato da più parti e più livelli affinché garantisse un accesso libero agli aiuti nella regione.

SU QUESTO SI SEGNALANO progressi significativi: il World Food Programme e il governo etiope hanno concordato misure concrete per espandere l’accesso degli operatori umanitari nel Tigray e questo ha permesso l’avvio della distribuzione di 20 mila tonnellate di derrate alimentari. Altro sviluppo positivo è l’autorizzazione concessa a 44 esperti internazionali per partecipare alle operazioni umanitarie. Passi in avanti, ma non ancora sufficienti; secondo quanto riferito dall’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), «il sistema sanitario nel Tigray è quasi al collasso, con solo 3 ospedali operativi su 11». Inoltre, la guerra è scoppiata proprio nel periodo della mietitura: i raccolti sono andati persi e le fattorie abbandonate.

IL PRIMO MINISTRO ETIOPE Abiy Ahmed ha affermato: «La fine delle sofferenze nel Tigray e in tutto il Paese sono adesso la mia massima priorità. Per questo chiedo alle Nazioni unite e alle agenzie di soccorso internazionale di collaborare per portare insieme gli aiuti a quanti ne hanno bisogno». Ma le organizzazioni lamentano ancora scarse possibilità di accesso. Per Jan Egeland, segretario generale del Consiglio norvegese per i rifugiati, «raramente si è vista una risposta umanitaria così ostacolata».

SUL FRONTE ABUSI, dall’ultimo rapporto della Commissione etiope per i diritti umani (Ehrc) emerge che «solo negli ultimi due mesi, sono stati segnalati 108 casi di stupro negli ospedali di Mekelle, Ayder, Adigrat e Wukro. E sebbene la Commissione abbia notato alcuni miglioramenti, a Mekelle e in altre aree visitate è ancora necessario uno sforzo notevolmente maggiore per far fronte in tempo utile alle emergenze umanitarie»: permangono infatti «carenza di cibo, acqua potabile e i servizi sanitari sono insufficienti».

Un secondo elemento è comprendere cosa accade realmente sul campo, dato il permanere del blocco informativo. La procura generale ha avviato un’indagine da cui emerge che il Tigray’s People Liberation Front (Tplf) avrebbe preparato e pianificato l’attacco alle forze etiopi già nei tre mesi precedenti il 4 novembre, creando una milizia chiamata Zefer Mewferi Forces che nel tempo sarebbe stata in grado di mobilitare più di 170.000 persone. Lo Stato regionale del Tigray avrebbe istituito un centro militare chiamato Tigray Central Command definendo otto fronti, otto comandi e 23 reggimenti: una struttura dettagliata della quale secondo il procuratore si può risalire ai gradi, ai nomi, agli stipendi. Inoltre sarebbero state messe in atto azioni di spionaggio sia da persone afferenti il Tplf all’interno dell’esercito etiope sia da parte di società, nello specifico da parte di Tplf Effort, Sur Construction, Mesfin Industrial Engineering e Mesobo. Le società avrebbero agito anche per garantire fondi, scavare trincee e per azioni logistiche (trasporto di attrezzature militari, carburante e cibo).

MA LA QUESTIONE NON RIGUARDA solo il Tigray, per la procura «ci sono prove sufficienti per dimostrare che questo gruppo abbia sponsorizzato, negli ultimi due anni, conflitti a livello nazionale proprio per iniziare a indebolire il governo federale». Le migliaia di persone che sono state uccise in scontri etnici a Benishangul Gumuz, in Oromia e in altre regioni dell’Etiopia secondo gli inquirenti sono state perpetrate da gruppi sostenuti dal Tplf.

L’Eepa (Europe External Programme with Africa) sostiene invece che non solo le pressioni internazionali per un ritiro dei militari eritrei dal Tigray sarebbero cadute nel vuoto, ma addirittura la loro presenza sarebbe in crescita sia in termini di uomini che di mezzi. L’Unione europea in una nota accusa l’Eritrea di alimentare il conflitto nel Tigray e chiede che si garantisca l’accesso dei media internazionali e la protezione ai giornalisti locali.

A 100 giorni dal via all’«operazione di ripristino della legalità nel Tigray», poi divenuta guerra, l’unica strada che resta non può essere lastricata di intenzioni.