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Il cinema tedesco oggi: un movimento?«Insieme all’Ucraina» dice lo striscione coi colori giallo-blu che accoglie i visitatori del Museo della Radio e della Televisione. Ma la bandiera ucraina appare un po’ dappertutto nella capitale tedesca,appesa ai balconi delle case e alle finestre, talvolta vicina a quella arcobaleno, esposta fuori dai luoghi più «istituzionali» a testimoniare la vicinanza della Germania; un sentimento a cui la Berlinale ha dato voce sin dalla serata inaugurale, con Zelensky in collegamento streaming presentato da Sean Pen – di cui si è poi visto Superpower girato in Ucraina all’inizio del conflitto – e una selezione che unisce molte voci di registi e storie da quel Paese. Ma l’impegno nelle cose del mondo è una cifra che la rassegna, diretta da Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek, ha sempre messo al centro delle sue scelte di programmazione, interpretando le richieste dell’attualità.

IN UN COMUNICATO diffuso ieri, la Berlinale ha sottolineato gli ottimi risultati della prima settimana festivaliera – aspettando sabato l’Orso d’oro –di questo ritorno in sala libero da costrizioni dopo due anni di pandemia: 267.000 i biglietti venduti finora cui si aggiunge un’alta presenza di stampa e addetti ai lavori internazionali. Per la premiazione di Spielberg, con l’Orso d’oro consegnato al regista di E.T. da Bono, c’erano 1600 persone, e forse grazie anche a un inverno ormai climate change, la folla intorno al «red carpet» è sempre numerosa.
Tutto bene, dunque? Non proprio a fronte di una selezione che comincia a risalire solo questi ultimi giorni, partita tra formule convenzionali e accademismi più o meno mascherati da novità. E se non si può essere che felici dell’entusiasmo dell’audience – l’appartenenza alla città è un’altra caratteristica storica della Berlinale – è anche vero che per garantire questo il riferimento obbligato è ormai il «tappeto rosso», i nomi, le star necessari a attirare l’attenzione mediatica – come se i film in sé non servissero più a nulla. Può sembrare un paradosso, e lo streaming lo ha solo gonfiato, e obbliga i programmatori a lavorare su equilibri molto solidi che non sono però scontati.

IN CONCORSO ieri è arrivato (finalmente) Christian Petzold col suo nuovo film, entrato già nelle classifiche dei titoli più attesi dell’anno in corso. Una aspettativa che non ha deluso, del resto: come sarebbe possibile? Negli anni il regista tedesco, nome di punta della Berliner Schule, insieme a Angela Schanelec in competizione con Music, ha composto una filmografia – grazie anche alla collaborazione preziosa col suo maestro alla scuola di Cinema e tv purtroppo scomparso, Haroun Farocki – capace di un costante confronto col tempo e con la storia, in un lavoro di scrittura formale preciso, riconoscibile, nel segno d’autore ma mai ripetitivo, che al contrario si pone continui interrogativi a ogni nuova prova. Afire, questo il titolo internazionale per Roter Himmel (di cui Petzold firma anche la sceneggiatura) è un film di presagi, detour, riflessi (spiazzanti) disseminati sin dalle prime inquadrature: due ragazzi su una strada deserta, il motore dell’automobile si incendia, uno conosce la strada più breve ma si confonde e si perdono nel bosco. Andrà a vedere se la direzione è quella giusta lasciando l’amico con i bagagli. Nel silenzio della vegetazione la tensione, che è la stessa del personaggio, cresce: grida di animali, rumori strani, un aereo invisibile che solca il cielo in modo insistente. È l’inizio di un thriller? Di un horror? E chi sono questi due giovani? Amici? Amanti? Non sono le domande giuste, non con Petzold almeno che i generi li usa per mutarne le aspettative; il melò che è la sua cifra raggelato ma non nella temperatura, la commedia, qui forse per la prima volta, che assume a volte il ritmo – e la levità – di un classico teatro degli equivoci, senza però catarsi nel disvelamento.

Leon (Thomas Schubel) e Felix (Langston Uibel) sono rispettivamente uno scrittore e un artista, il primo alle prese col secondo romanzo – e una crisi creativa – il secondo, figlio della proprietaria della casa dove sono diretti, sul mar Baltico, in cui passeranno una vacanza-lavoro, sta invece preparando il suo portfolio di fotografie per l’ammissione a una scuola d’arte. La madre però si è dimenticata di avvisarlo che c’è anche un’altra ospite, Nadja (Paula Beer), di cui le tracce sono ovunque, scarpe, abiti, resti di cena, e la notte le grida di piacere con l’amante, il super palestrato bagnino, Devid (Enno Trebs) che presto si unirà al gruppo, impediscono a Leon di dormire. Subito gli altri tre entrano in sintonia, lui invece rimane fuori: è aggressivo, polemico, noioso, sprezzante, ai suoi occhi senza che si preoccupi neppure di chiederglielo, sono un bagnino macho e la cameriera dell’hotel, persone da poco in una visione borghese distorta. Intanto intorno la foresta brucia, gli allarmi incendio si moltiplicano, la cenere vaga nell’aria. E un nuovo elemento, l’editore di Leon (Matthias Brandt), arriva a scompigliare ancora questa precaria situazione emozionale.

FUOCO, acqua, l’incendio, il mare, l’esterno, l’interno: è tra questi elementi che Petzold costruisce la sua geometria, disegnata fra la casa e la spiaggia, racchiusa dal bosco, il cui orizzonte anche all’esterno di questo spazio sembra non dischiudersi mai; per rimanere nelle opposizioni dei corpi dei personaggi – gli attori sono tutti magnifici. È in questo movimento che vivono le emozioni: e non si tratta dell’equazione (banale) fiamme – uguale – passioni, Petzold lavora su quanto c’è dietro alle apparenze – e la chiave sta nel personaggio femminile di Paula Beer – mettendo in scena con ironia una serie di stereotipi, subito riconoscibili, per farli evaporare nella realtà.Una crisi creativa, una foresta in fiamme, un punto di vista oltre gli schemi

È DUNQUE l’essenza stessa della narrazione che il regista affronta in questo splendido film, in cui poesia e politica si fondono in una parola che esprime il contemporaneo. Cosa ci suggeriscono queste figure? Di cosa ci parlano? Sono «reali» o sono fantasmi di una letteratura, di una ricerca, della necessità di un gesto artistico? Che per essere tale deve trovare uno sguardo, un punto di vista, la capacità di ascolto oltre le apparenze e gli schemi «identitari» – sociali, di genere, di appartenenza, professionali – caselle che definiscono, che oggi sembrano la priorità? «Come puoi non guardare mai oltre te stesso e scrivere?» grida il personaggio di Nadja allo scrittore incartato nelle sue futili parole di un «Club Sandwich» senza vita che non lasciano spazio a nulla – a differenza dei ritratti dell’amico Felix davanti al mare che si aprono all’enigma e alle interpretazioni.

LA STESSA DINAMICA delle apparenze fondava uno dei film più belli del regista, Phoenix (2015), la donna con il doppio volto che torna da un passato, il nazismo e i suoi stermini, insopportabile al punto che nessuno la riconosce. Lì si trattava però della storia di un Paese, la Germania, e dei suoi «vuoti di memoria»; qui Petzold lavora appunto sul presente, affrontando il senso della rappresentazione – di sé, del cinema, delle storie. L’amore, l’amicizia, il desiderio, le affinità, il sesso: a quanto è lineare, esibito, spiegato, classificato (i meccanismi di oggi) oppone uno sguardo disposto all’imprevisto – un’esigenza quella di trovare un punto di vista sul mondo che torna in molte opere viste. Che al centro predilige i bordi, e anche quando tutto sembra chiaro sa ancora farsi sorprendere. Come l’amore, come il cinema.