Il fruscio dei ventilatori si mescola al brusio delle preghiere: prima dell’insegnante del centro di riabilitazione giovanile di Djalalabad, capitale della provincia afgana di Nangarhar, poi dei dodici ragazzi seduti a terra davanti a lui. Sulla lavagna bianca appoggiata su tavolo traballante si mescolano frasi in pashto ed estratti dal Corano.

A Mohammed, 16 anni, mancano ancora 4 mesi: recita le sue preghiere davanti ad un altro mullah, «più importante», e a un’altra lavagna, «più ordinata». Desiderava fortemente, dice, «combattere fino alla morte il governo afgano e gli invasori stranieri». Prima di essere arrestato dalle autorità, Mohammed era uno dei numerosi bambini reclutati dal gruppo dello Stato islamico a Khorasan, il ramo afgano dell’Is proclamato a Nangarhar nel 2015.

È LA PROVINCIA CONFINANTE con il Pakistan, l’area dove si affrontano i talebani, i combattenti dell’Is, le forze afgane e internazionali. Una delle zone più instabili del paese. Daesh ne rivendica gli attentati e gli attacchi. Questo centro è uno dei 34 riformatori in Afghanistan: ospita, fra gli altri, i bambini detenuti per i crimini contro la sicurezza nazionale che seguono ogni settimana un «corso di deradicalizzazione».

Combattere l’indottrinamento attraverso la religione è la missione di Bismillah, il professore che insegna oggi nel centro. In questo Paese dove la religione è profondamente radicata nella società, quest’uomo dalla folta barba grigia afferma di voler contrastare l’ideologia estremista con «le reali parole del Profeta». Davanti a questi adolescenti, spiega, conviene dimostrarsi diplomatici: «Non serve a niente dire che le loro idee sono sbagliate, si impunterebbero. Preferiamo ricordare che il Profeta ha formalmente vietato che i bambini prendano le armi.»

AL LORO ARRIVO la maggior parte dei ragazzi giurava di essere «combattente sacro, ruolo ereditato dai genitori e nonni», spiega Mohammed Shah, direttore del centro. «Il nostro ruolo è attenuare il più possibile questo lavaggio di cervello affinché, una volta scontata la pena, possano reintegrarsi nella società». Ai tempi dei talebani i centri di detenzione per i minori erano chiamati «case dei figli degli asini». Poi sono diventati «centri di educazione». Oggi la loro missione ha una nuova denominazione: «centri di riabilitazione e di formazione». I giovani detenuti a soli cinque anni partecipavano alle esecuzioni.

«ACCETTAVO TUTTO ciò che mi diceva la gente di Daesh perché loro erano bravi con le parole», ricorda Mohammed, e il suo sguardo si sofferma sul cortile della prigione visto dalla finestra. «Guardavamo i video dei combattimenti, imparavamo ad utilizzare le armi che sparavano tanti colpi nello stesso momento…l’idea era di distruggere il sistema attuale per stabilire nuove leggi, qui e in tutto il mondo». I bambini, la maggior parte dei quali aspetta ancora la conclusione del processo, evitano di parlare del tempo passato fra i ranghi dei gruppi armati, dopo l’addestramento iniziale.

I TALEBANI, nonostante continuino a combattere contro il governo afgano e le forze internazionali dopo la caduta del loro regime nel 2001, proibiscono ufficialmente l’invio al fronte dei ragazzi ancora inesperti, mentre lo Stato islamico è più incline a reclutare bambini. Pare infatti che dopo l’insediamento di questo gruppo in Afghanistan il numero dei bambini soldati nel Paese sia aumentato in maniera esponenziale. «Questa campagna di reclutamento aggressivo, che riguarda anche i più giovani è una degli aspetti più inquietanti di questi militanti», osserva Michael Kugelman, vice direttore del programma Asia al Wilson Center.
Indebolito in Iraq e in Siria, lo Stato islamico, che stava investendo già molto nell’indottrinamento dei bambini nel Medio Oriente, ha trovato in Afghanistan un substrato culturale arretrato ricco di potenziali reclute – qualunque sia la loro età.

Nel marzo scorso, il sito internet Site, che controlla l’attività dei gruppi estremisti, ha diffuso una serie di fotografie che sarebbero state scattate dallo Stato islamico a Nangarhar: due ragazzi di circa cinque anni, armi in pugno, che portano i prigionieri fino al luogo della loro esecuzione.

A KABUL UN RESPONSABILE delle forze di sicurezza, ha assicurato a Le Figaro che la branca afgana dello Stato islamico ha già inviato numerosi bambini a commettere attacchi suicidi: presso un edificio dei servizi di informazione nel dicembre scorso per esempio, o ancora nella zona diplomatica due mesi prima.

L’autore di questo attentato avrà avuto una dozzina di anni. «I bambini hanno maggiore possibilità di evitare la perquisizione in prossimità degli edifici istituzionali», spiega il responsabile, e aggiunge che lo Stato islamico ha adottato questa tattica in particolare per contrastare il rafforzamento delle misure di sicurezza. In un documentario del canale americano Pbs diffuso nel 2015, i membri dell’Is a Nangarhar affermavano di aver già inculcato la loro ideologia a bambini di appena tre anni, in vista del loro successivo utilizzo come kamikaze.

In questa provincia, lo Stato Islamico possiede la propria radio e trasmette, tra i suoi programmi, uno show destinato ai futuri «leoncini del califfato». «I gruppi armati reclutano i bambini psicologicamente vulnerabili, che soffrono traumi causati dalla guerra o dalle violenze familiari», precisa Lyla Schwarz, psicologa americana a Kabul.

«L’indottrinamento, la formazione militare e le droghe che sono spesso date alle giovani reclute provocano ai bambini un distacco dalla realtà e un’insensibilità alla sofferenza altrui. Per sperare di deradicalizzare questi giovani – aggiunge – non sono sufficienti le lezioni di etica o di religione: si tratta d’intraprendere un percorso psicologico di fondo».

ALLA FINE DEI CORSI, il professore Bismillah domanda ai bambini di parlare a turno davanti alla classe. Uno di loro si cimenta «Io sogno la pace, ovviamente, ma io voglio anche che qui e nel mondo intero, si possa far regnare la Sharia».

Qualche minuto più tardi, un attentato contro un edificio locale del ministero dell’educazione, già bersaglio di un kamikaze il mese prima – farà almeno undici morti. E sarà rivendicato dallo Stato islamico.

(traduzione di Marianna Navarra: il reportage di Margaux Benn, pubblicato da Le Figaro, e proposto ai suoi lettori da il manifesto, ha vinto il Premio Luchetta 2019 nella sezione stampa straniera. Corrispondente da Kabul per il quotidiano francese, Margaux Benn è stata premiata ieri, sabato 11 maggio, a «Link 2019», il festival del buon giornalismo in programma dal 9 al 12 maggio a Trieste, nei 25 anni della Fondazione Luchetta per i bambini vittima delle guerre)