In Qatar, a Doha, nelle accoglienti sale dell’hotel Sheraton, Talebani e rappresentanti del governo litigano sull’agenda del negoziato che verrà. In Afghanistan, nelle aree rurali, nei villaggi e nei distretti periferici, si muore.

Le ultime vittime sono 12 tra bambini e ragazzi con meno di 16 anni. Finiti sotto le bombe degli aerei governativi che mercoledì hanno colpito una madrasa nel villaggio di Hazara Qarluq, nel distretto di Baharak, provincia settentrionale di Takhar, verso il confine con il Tajikistan. Una delle aree in cui il conflitto si è intensificato, dopo la firma a febbraio dell’accordo tra mullah Baradar, numero due dei Talebani, e Zalmay Khalilzad, l’inviato del presidente Usa Donald Trump.

DA FEBBRAIO IL CONFLITTO è cambiato. Gli americani e i Talebani non si fanno più la guerra, se non in circostanze particolari, comenei giorni scorsi nella provincia meridionale dell’Helmand, quando gli aerei statunitensi sono intervenuti per impedire che i Talebani entrassero armi in pugno e bandiera sventolante a Laskhargah, capoluogo provinciale, da cui sono fuggite almeno 40mila persone. Nei territori sotto pieno controllo talebano i rischi per i civili sono minori che in passato, spiega un recente rapporto dell’Afghanistan Analysts Network di Kabul: l’esercito è in posizione difensiva, ci sono meno raid e operazioni di terra.

Nei territori governativi, il pericolo è rimasto simile a prima. È aumentato nelle aree contese, come nella provincia settentrionale di Takhar, dove è avvenuto il bombardamento di mercoledì.

FONTI LOCALI, riportate dai media afghani e internazionali, sostengono che le vittime siano civili. Abdul Awal, l’imam della moschea adiacente alla madrasa colpita e uno dei circa 20 feriti, ha dichiarato alla Bbc che al momento dell’attacco aereo nella moschea c’erano soltanto lui e i giovani fedeli. Per il ministero della Difesa, il bombardamento avrebbe colpito i Talebani, che nei giorni scorsi in quell’area hanno messo a segno due imboscate sanguinose, uccidendo circa 40 membri delle forze di sicurezza.

Per il vicepresidente afghano, Amrullah Saleh non c’è stata alcuna vittima civile, che sono tutte fake news: «Ho visto con i miei stessi occhi le prove, parlo con autorevolezza morale e politica». Ci sarà un’inchiesta rigorosa, rassicurano le autorità di Kabul, che in questi anni non si sono distinte per trasparenza. L’episodio rimanda a quanto avvenuto il 2 aprile 2018 nel distretto Dasht-e Archi nella provincia di Kunduz, quando gli elicotteri dell’esercito hanno sparato su una cerimonia religiosa accanto a una moschea. Obbiettivo dichiarato, i Talebani. Ma secondo l’inchiesta della missione dell’Onu, resa pubblica nel maggio successivo, dei 36 morti 30 erano bambini.

SONO TUTTE DONNE INVECE le 13 persone morte mercoledì in uno stadio di Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar. In questo caso non c’entrano i bombardamenti, ma gli effetti «secondari» del conflitto. Nello stadio ci sono circa 10mila persone. Il consolato del «Paese di puri» è rimasto chiuso per 8 mesi a causa dell’emergenza Covid. Attraversare il confine è una necessità per molti. Famigliari, lavoro, assistenza sanitaria sono al di là della Durand Line. Quando il consolato riapre, e quando da Islamabad arriva notizia che le procedure per visti multipli e prolungati verranno semplificate, cresce l’attesa. Lo stadio si riempie. La gente si accalca: soltanto le prime 1.000 persone potranno fare richiesta in giornata per un visto per il Pakistan.

Muoiono tredici donne. Schiacciate dalla folla mentre sperano di ricevere un visto per un Paese povero, ma che nel corso degli ultimi decenni ha accolto milioni di profughi afghani. Più generosamente di quanto non stia facendo l’Unione europea, che proprio in questi giorni sta rinegoziando un accordo importante, lontano dai riflettori. Si tratta del Joint-Way Forward, l’accordo tra Kabul e Bruxelles sottoscritto nell’ottobre 2016 che prevede il rimpatrio – anche forzato – di tutti quegli afghani la cui richiesta di asilo venga rigettata dai Paesi membri. Per i gruppi della società civile afghana ed europea è un accordo-capestro: soldi in cambio di rimpatri. Bruxelles nega, ma gli afghani rimpatriati con voli di linea raccontano un’altra storia.

LE NUOVE DISCUSSIONI sul Joint-Way Forward si tengono, non a caso, poco prima della conferenza del 23/24 novembre di Ginevra, quando i donatori decideranno come e se prolungare il sostegno finanziario a un governo che si regge sulle spalle altrui. Oppure se tirare i remi in barca, come in parte sta già avvenendo.

Meno truppe sul terreno, meno aiuti civili, raccontano tutti i conflitti recenti. Nei quali l’aiuto umanitario e civile è spesso servito per legittimare le operazioni militari.