«Mi ha salvato la vita la decisione repentina di avventurarmi nel corridoio dell’ospedale perché un minuto dopo la stanza dove i medici riposavano dai turni è esplosa colpita da una bomba. Il mio collega Osmani, che aveva esitato, viene dilaniato dall’esplosione. E mentre l’ospedale viene fatto segno di un bombardamento continuo, mi precipito in fondo al corridoio dove c’erano tre porte chiuse. Una dava su un ufficio senza vie d’uscita. Le seconda era un bagno. Quando apro la terza – nell’indecisione febbrile di quella manciata di secondi – vengo investito da una vampata di fuoco e torno allora sulla porta del bagno: vedo la finestrella molto in alto ma, salendo sulla vasca, la raggiungo. Mi butto di sotto, facendo attenzione a non cadere nel muretto che la circondava da dove non sarei più uscito. Non so nemmeno come ne sono stato capace ma ho saltato e mi sono salvato».

ABDUL GHAFAR RAMAKEE torna con la memoria a quel 3 ottobre di sei anni fa. A Kunduz, nel 2015, dove alle 2.08 del mattino l’ospedale che Medici senza frontiere aveva messo in piedi nel 2011 diventa un obiettivo militare «chirurgico» americano. Una pioggia di fuoco durata 90 minuti, ricorda Abdul, che uccise 42 tra pazienti, medici e infermieri. Altri 98 furono feriti in modo più o meno grave: chi perse braccia o gambe, chi riportò traumi e ustioni e dovette essere subito evacuato, chi – come lui – riportò ferite (nel suo caso agli occhi e all’udito) le cui conseguenze si sentono ancora.

«Ma sono vivo» dice mentre ci accoglie nella sua casa di Quattordio (Alessandria), dove vive con la moglie Palwash e i figli Sabawon e Saamer di 10 e 7 anni. Poi c’è la piccolissima Ayesha di tre mesi. Anche lei ha visto la guerra.

E, STRETTA AL GREMBO di sua madre, ha passato all’aeroporto di Kabul due interminabili giorni e notti nella calca e nei miasmi del putrido canale che circondava la famosa Abbey Gate. Poi miracolosamente riusciranno a entrare nello scalo e ora sono accolti in Italia.

Raggiungiamo il piccolo Comune grazie ad Annibale Rossi di Vento di terra, una delle Ong italiane che hanno lavorato in Afghanistan e che più si sono spese in questi due mesi per aiutare le famiglie afgane a venire in Italia. C’è anche Valentina, una pediatria che ha lavorato a lungo con Msf a Herat. Abdul ci accoglie come si conviene all’ospite invitato da una famiglia afgana. Prima di tutto il tè con i biscotti e i convenevoli di rito, conditi da qualche battuta che fa salire il livello del buonumore, una delle prerogative più piacevoli degli afgani: il grande senso dell’umorismo nonostante tutto. Ci raggiunge anche il suo collega Wahdatullah Nijrabi, che con Abdul lavorava a Kunduz.

È vivo anche lui e ora è a Quattordio con la moglie Sawda e i due figlioli Bushra e Jayda. Scambio di battute e le tazze del tè nuovamente riempite. Dopo qualche minuto arriviamo al racconto, a una memoria ancora vivida e che ci trasferisce di peso nell’atmosfera torbida di una guerra durata vent’anni per combattere il terrorismo che si è servita dell’arma più terribile e spietata nel trasmettere morte e terrore: il bombardamento aereo.

«NELL’OSPEDALE DI KUNDUZ avevamo oltre 90 posti letti. C’era un gruppo di expat, una dozzina, ma il personale afgano era di 24 medici e di 45 infermieri. Era un buon ospedale, grande e molto ben equipaggiato. Io, quella notte, ero in terapia intensiva ed ero arrivano lì da Kabul dove ho completato i miei studi e fatto le mie prime esperienze». Alla fine di settembre la guerra irrompe a Kunduz e il 2015 segna un punto di svolta perché il conflitto si sposta anche nel Nord, fino ad allora relativamente tranquillo in una cornice che vede soprattutto coinvolto l’Est e il Sud del Paese e, seppure in misura minore, l’Ovest. Il Nord sembra tenere ma a fine settembre l’offensiva dei Talebani sfonda la linea di sicurezza che circonda la città e cominciano i combattimenti strada per strada.
Qualche giorno prima del 3 ottobre i Talebani si fanno vivi all’ospedale «ma ci dicono che non lo attaccheranno, che rispetteranno il nostro lavoro e che potremo lavorare in sicurezza. Noi spieghiamo loro che curiamo chiunque arrivi a chiedere soccorso ma che nell’ospedale non possono entrare le armi». C’è accordo: anche la delegazione della guerriglia è venuta a parlamentare lasciando gli Ak47 fuori dal nosocomio.

IL 3 OTTOBRE, ABDUL è di guardia e nel cuore della notte finisce il turno e il «giro» nelle camerate. Fuori c’è la guerra ma nell’ospedale regna una quiete effimera. «Non facciamo in tempo ad addormentarci che si scatena l’inferno. Prima sento picchiettare sulla finestra e poi i vetri vanno in pezzi. La luce regge e ci ficchiamo sotto il letto ma poi abbiamo come la sensazione di essere in trappola. Decido di andare in corridoio mentre il mio collega preferisce rimanere nella stanza. Pensavamo ancora che si trattasse di uno scambio di razzi nelle strade ma poi comincio ad accorgermi che quegli scoppi sono di bombe. Cominciamo a temere che possano colpire le bombe ad ossigeno che sono proprio in corridoio e non sappiamo cosa fare. Poi una bomba prende in pieno tutta la zona dove ci sono i pazienti in isolamento e salta per aria anche la nostra stanza di riposo: faccio in tempo a vedere che a Osmani è saltata una gamba e, subito dopo, che gli si è aperto uno squarcio nell’addome. È un attimo e nelle aree colpite dalle bombe vedo morire i pazienti assieme agli infermieri… non so cosa fare. Mi dirigo al laboratorio per nascondermi: forse passano 5 minuti, forse 10 quando sento le fiamme alle mie spalle e immediatamente il fuoco circonda tutto. È a quel punto che torno in corridoio e mi trovo davanti alle tre porte…».

ED È A QUEL PUNTO che Abdul riesce ad avere il sangue freddo di pensare a come uscire da una gabbia che lo sta stritolando come ha fatto con i suoi colleghi e i suoi pazienti. Si infila nel pertugio del bagno e riesce a saltare oltre il muretto: «mi raggiungono due persone che mi buttano una coperta addosso. Sentivo i miei occhi bruciare ma ero vivo». Quanto è durato quell’inferno? «Secondo l’inchiesta fatta dall’American Army 30 minuti ma al mio orologio durò un’ora e mezza». Un errore, una scelta deliberata?

INIZIALMENTE L’ESERCITO americano disse di aver ricevuto rapporti secondo cui l’edificio dell’ospedale ospitava milizia talebana attiva ma poi «gli americani cambiarono immediatamente versione» ci dice oggi Christopher Stokes che era allora direttore generale di Msf. «Quando avvenne il bombardamento ero al Festival di Internazionale a Ferrara. Passammo tutta la notte in piedi per capire cosa stava succedendo e immediatamente dopo raggiunsi Kabul e poi Kunduz. In seguito volai a Washington e gli americani, che preparano una memoria investigativa sull’accaduto, giustificarono il raid sull’ospedale dicendo che l’obiettivo era un edificio vicino: che fu dunque “errore tecnico”, una perifrasi spesso utilizzata in questi bombardamenti dal cielo, non ultimo quello accaduto all’aeroporto di Kabul due mesi fa. Noi ricevemmo l’inchiesta interna americana ma non ci convinceva e inoltre aveva ancora parti cancellate. Secretate».

Msf si rivolge allora all’Independent Humanitarian Fact-Finding Commission (Ihffc), un organismo di esperti istituito dal Protocollo aggiuntivo I alle Convenzioni di Ginevra che indaga su presunte gravi violazioni del diritto umanitario internazionale.

«MA NON È SUCCESSO NULLA. Certo – aggiunge Stokes, adesso senior humanitarian advisor dell’organizzazione – restammo male ma non sorpresi. Gli americani ci avevano detto chiaramente che non avrebbero tollerato nessuna inchiesta che non fosse la loro. Ci rassicurarono che i loro standard investigativi erano elevati e che li avrebbero condivisi in tutta trasparenza con noi. Ma, che dire? A loro avviso il raid durò mezzora mentre per certo la durata fu di almeno un’ora… ammisero che il C-130 avesse colpito con oltre 200 ordigni». Compensazioni? Ramakee dice di aver ricevuto 3mila dollari. «Noccioline» è il commento di Stockes.