È morto ieri l’ultimo partigiano delle Quattro giornate di Napoli: Antonio Amoretti, Tonino ‘o biondo, a soli 16 anni aveva partecipato alla rivolta contro i nazifascisti che liberò la città prima dell’arrivo delle forze alleate. Per molti anni presidente dell’Anpi provinciale, la sua vicenda dimostra che non ci fu nessuna sollevazione di scugnizzi, nessun moto spontaneo e apolitico, ma una lunga resistenza sfociata in combattimenti in cui la popolazione affrontò un rabbioso esercito pronto alla rappresaglia.

Dal 1940 al 1943 Napoli venne sottoposta a durissimi bombardamenti, oltre 25mila le vittime. Nonostante gli attacchi continui, gli antifascisti avevano tenuto attiva la loro rete. Con l’8 settembre i generali italiani consegnarono la città all’esercito tedesco. Il 12 settembre il colonnello Walter Schöll, che aveva assunto il comando delle forze armate occupanti, proclamò il coprifuoco, ogni azione ostile sarebbe stata punita con 100 napoletani per ogni tedesco colpito. La mattina dopo sui muri venne affissa la dichiarazione dello stato d’assedio. Al punto 6: «Cittadini mantenetevi calmi e siate ragionevoli. Questi ordini e le già eseguite rappresaglie si rendono necessarie perché un gran numero di soldati e ufficiali germanici che non facevano altro che adempiere ai propri doveri furono vilmente assassinati o gravemente feriti, anzi in alcuni casi i feriti anche vilipesi e maltrattati in modo indegno da parte di un popolo civile». Le strade erano un campo di battaglia, la popolazione si ribellava e i nazisti replicavano con ferocia.

Il 23 settembre una nuova misura repressiva: lo sgombero di tutta la fascia costiera cittadina sino a 300 metri dal mare per consentire la creazione di una «zona militare di sicurezza», probabilmente il primo passo per distruggere il porto. Lo stesso giorno arriva la chiamata al servizio di lavoro obbligatorio in Germania per tutti i maschi tra i 18 e i 33 anni. Rispondono in 150 su 30mila così Schöll avvia i rastrellamenti con la fucilazione immediata degli inadempienti. L’insurrezione non è più rimandabile. Dal 27 al 30 settembre Napoli diventa un fronte di guerra, il primo ottobre gli Alleati trovano una città che si è liberata da sola.

E Amoretti? A raccontare la sua vicenda è lo storico Giuseppe Aragno: «Dopo l’armistizio la percezione del pericolo, cresciuta ogni giorno di più, ha spinto i più audaci ad agire e le retate di antifascisti non sono bastate a fermare la strisciante insurrezione. Militanti di diverse forze e partiti politici il 27 sono pronti a scendere in campo. Il padre di Antonio Amoretti è comunista, frequenta le riunioni clandestine dei “sovversivi” in casa del dentista Francesco Lanza, ex confinato passato dagli anarchici ai comunisti. Il padre sapeva in anticipo il giorno della rivolta infatti fu lui a consegnare al figlio la sua pistola di combattente della Grande Guerra alla vigilia dell’insurrezione, che non a caso esplose contemporaneamente in diversi quartieri della città. “A cosa mi serve?” gli domandò il figlio, “lo capirai domani” la risposta». Ai ragazzi Amoretti spiegava: «La mia missione è diffondere i valori della Resistenza e della libertà».