Tra le moltissime mail ricevute in questi giorni dagli uffici della Berlinale l’ultima, ieri, alla vigilia dell’inizio, annunciava che quest’anno non ci sarà alcun party di apertura, e se i direttori Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek si fanno portavoce del desiderio di brindare tutti insieme a questo ritrovarsi in presenza dopo un anno «virtuale», la pandemia ancora una volta (almeno in parte) ha prevalso. In sé la questione «festa» non sarebbe niente – lo stesso hanno fatto altri grandi festival – se non che la Berlinale che si apre oggi appare dominata da un controllo pure comprensibile visto il trauma di una pandemia mondiale se non fosse pieno di punti confusi e assai contraddittori.

A differenza di altri grandi festival internazionali, quello di Cannes e la Mostra di Venezia, che rimane assolutamente la più lucida nella gestione del festival in epoca pandemica, la Berlinale ha imposto agli accreditati regole durissime, a cominciare dal tampone obbligatorio ogni giorno per accedere nell’area del festival e alle proiezioni stampa anche per chi ha tre dosi di vaccino. Eccesso di precauzione visto che in sala e in ogni spazio pubblico è obbligatoria la mascherina (FFP2), la capienza è al 50% e non si entra senza almeno due dosi di vaccino o un certificato di guarigione dal Covid?

«VOGLIAMO garantire un’ atmosfera serena facendo sentire gli ospiti in sicurezza» si legge nelle «missive» del festival. Giusto. Però lo stesso accreditato se si prenota un biglietto per le proiezioni pubbliche – cosa possibile – non dovrà fare alcun test. Dunque? Messa così sembra che l’organizzazione voglia essere al riparo da ogni possibile rimprovero con contagi zero tra i festivalieri, ma poi scorrendo il sito si vede qualche annotazione del tipo che siccome gli ospiti internazionali viaggiano molto e hanno molti contatti, insomma sono «a rischio», vanno testati (pure i giornalisti tedeschi ovvio ma lì è questione di non discriminare, c’è pure una commissione apposita per monitorare e che ciònon accada). A essere maliziosamente cinefili viene da pensare alla mai dimenticata nave di Nosferatu (quello di Murnau), e varcando la soglia per ritirare gli accrediti ci si sente sopraffatti da questa «safe zone» tra covid test, braccialetti come prova di avere eseguito i suddetti, numeri, nessun materiale stampato, il gadget della borsa formato ridotto (un marsupio rosso davvero orrendo); insomma, non si può dare torto ai molti che hanno annullato, a chi si lamenta per essere messo in condizioni di lavoro complicate perché la riduzione dei giorni di festival – fino al 16, gli altri sono repliche per gli spettatori – non ha corrisposto uno snellimento del programma penalizzando i titoli delle sezioni «parallele».

Tanta rigidità è aliena al mondo «fuori», la città sembra abbastanza serena, la gente la sera sta nei locali o al ristorante, (ma ovunque senza GP non si entra) anche se le strade sembrano più vuote, molti dei chioschetti dentro alle stazioni della metropolitana hanno chiuso – nell’area festivaliera resiste però orgogliosamente la Street Food coi camion ora muniti di tavolini – il global warming permette di sedere all’aperto. Rispetto al 2020, l’ultima edizione della Berlinale «dal vivo» e anche l’ultimo festival prima della pandemia globale, c’è meno via vai (almeno ieri) intorno al Berlinale Palast, il che è normale visto che il Mercato del film è online e in molti paesi sono ancora in corso limitazioni di viaggio – senza dimenticare appunto le regole del festival.

Che Berlinale sarà questa panico del test a parte? Per l’apertura è stato scelto il nuovo film di François Ozon Peter Von Kant (anche in concorso) che il regista francese, Orso d’argento nel 2019 con Grace a Dieu, definisce «una libera interpretazione» del film del 1972 di Rainer Werner Fassbinder, e un omaggio al regista del Nuovo cinema tedesco di cui ricorrono i quarant’anni dalla morte – Ozon 22 anni fa ne aveva già «riletto» Gocce d’acqua su pietre roventi (presentato anch’esso alla Berlinale). La protagonista femminile del film di Fassbinder diviene qui un uomo, un regista interpretato da Denis Menochet, nel cast ci sono Hanna Schygulla, tra le protagoniste della factory fassbinderiana, e Isabelle Adjani.

PANORAMA comincia invece col nuovo film di Alain Guiraudie, Viens, je t’emmène, una trama di vite e di sentimenti nel caos che esplode a Clermont Ferrand dopo un attentato terroristico. In concorso per l’Italia c’è Leonora addio di Paolo Taviani – sarà in sala il 17 febbraio – e in Panorama l’opera seconda di Chiara Bellosi Calcinculo, l’esordio di Francesco Costabile, Una femmina e il doc di Nicolò Bassetti, Nel mio nome.

Ieri il Forum Expanded ha inaugurato la mostra Closer to the Ground, una serie di opere che investigano il tempo contemporaneo, e la Settimana della critica (Woche der Kritik) ha «lanciato» la sua programmazione – il primo titolo è di Julio Bressane, Capitu and the Chapter– con un incontro dal titolo: «È vietato fermarsi? Il ’progresso’ di cui ha bisogno il cinema», anche questa una riflessione sulla pandemia e sulle mutazioni che ha prodotto con tra gli altri Nadav Lapid, Thomas Heise, Eva Sangiorgi, Laila Pakalnina, Cintia Gil.