«Le nostre indagini, i nostri brandelli di verità, ci portano almeno a 20 nomi, quasi tutti della Nsa, da colonnelli e generali ad assistenti. Per una volta siano loro a non sentirsi sicuri». Così ieri, alla Federazione nazionale della Stampa a Roma, l’avvocata Alessandra Ballerini ha elencato alcuni dei nomi degli aguzzini di Giulio Regeni.

I primi cinque, quelli resi noti dalla stampa e indagati dalla Procura di Roma, «sono solo i primi cinque». Si va avanti, dunque, consapevoli – come dice la madre di Giulio, Paola Deffendi – di essere «in una fase importante e non molliamo, il grande passo c’è stato perché nessuno ha ceduto».

Venti nomi ai più alti livelli della Nsa, la National Security Agency, ovvero i servizi segreti interni egiziani sotto il diretto controllo del ministero degli interni. Il grande fratello che gli egiziani, fino a sette anni fa, conoscevano come Ssis: ha cambiato nome dopo la rivoluzione, ma non pelle.

Gli aguzzini che conosciamo – il generale Tarek Saber, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mahmoud Najem – hanno ordinato ed eseguito il pedinamento di Giulio già da dicembre del 2017. Ma c’è poi «un altro gruppo di persone – continua Ballerini – che si è occupato del più sanguinoso depistaggio, l’uccisione dei cinque cittadini egiziani il 24 marzo 2016».

Mente anche il medico legale che attribuisce la morte di Giulio a un ematoma celebrale per accreditare la tesi dell’incidente stradale e poi parla di un solo giorno di torture subite, e non nove; mentono le persone che hanno trovato il corpo di Giulio e l’egiziano che diceva in tv di averlo visto, il giorno prima della scomparsa, in maglietta rosa litigare con qualcuno di fronte all’ambasciata italiana, quando – lo dicono le mail inviate il 24 gennaio – era a casa. Non cinque e alla fine nemmeno 20: le persone in qualche modo coinvolte arrivano a 40.

Tutte dimostrabili, tutti soggetti individuati grazie a «elementi solidi». Tra questi spicca il nome del più alto in grado, il generale Tarek Saber, alto ufficiale della Nsa al tempo del rapimento e l’uccisione di Giulio, poi «pensionato» nel 2017. Colui che, per allontanare i sospetti dall’agenzia affermò: «Regeni non rappresentava un pericolo per la sicurezza del paese». Di fatto ammettendo di averlo sottoposto a indagini.

Il suo coinvolgimento tira dentro il vertice della piramide: «Nulla sfugge al controllo di al-Sisi – chiude l’avvocata – Non poteva non saperlo, ha avuto nove giorni e nove notti e tutti erano allertati. Se non lo sapeva, allora ha un problema enorme». L’appello finale, oltre quelli alla «grande squadra» che citano Paola e Claudio Regeni, fatta da avvocati, consulenti in Egitto («i veri eroi»), giornalisti, cittadini, è proprio a quelle 20 persone: «Gli conviene parlare per primi».

E mentre da Montecitorio il presidente della Camera Fico parlava di compattezza del governo nel caso, all’Fnsi si ribadiva qualcosa di più doloroso: la mancata interruzione dei rapporti con Il Cairo: «Se il precedente governo che io appoggiavo – ha detto Luigi Manconi – definiva il regime di al-Sisi un buon amico, ora c’è un salto: in 35 giorni sono state quattro le visite di membri del governo al capo del regime. Da buona amicizia a pericolosa promiscuità».

In sala c’è anche Ahmed Abdallah, fondatore dell’ong egiziana Ecrf, impegnata dal 2013 in migliaia di casi di sparizioni forzate, torture e abusi. Consulente dei Regeni al Cairo, lui stesso imprigionato per oltre 5 mesi nel 2016 in relazione al lavoro svolto per la famiglia di Giulio, accende una luce per Amal Fathy, come fatto poco prima da Paola e Claudio.

Amal, attivista e moglie di un altro dei fondatori di Ecrf, Mohamed Lofty, è in prigione da maggio, ostaggio del regime: «Non riceve cure adeguate. La sua salute deteriora, giorno dopo giorno. Ha un bimbo di tre anni, dovrebbe essere con lui e non in una prigione».