Dopo la parentesi spagnola di Tutti lo sanno con i divi Javier Bardem e Penelope Cruz, Farhadi torna ai tormenti morali ambientati nella piccola borghesia iraniana che lo hanno fatto conoscere nove anni fa con Una separazione. Al centro della storia c’è un quarantenne di bell’aspetto (Amir Jadidi) con uno strano sorriso stampato in volto. Uscito con un permesso dal carcere dove è recluso per debiti, Rahim si mette in macchina e raggiunge il monumentale sito archeologico di Shiraz. Dopo aver attraversato un’enorme e assolata spianata, l’uomo imbocca una scala di ferro e inizia a salire lungo un’altissima impalcatura. Arrivato in cima non si ferma e, superato uno stretto passaggio, comincia a scendere fino ad arrivare a una grotta dove trova finalmente il cognato che sta lavorando. Asghadi Farhadi annuncia fin dall’incipit di Ghahreman (Un Héros) quanto la narrazione sarà tormentata e incoerente e quanto faticoso risulterà il percorso del protagonista.

L’UOMO ha intravisto in un colpo di fortuna occorso alla propria innamorata la possibilità di riparare il debito e ottenere la riabilitazione, ma il percorso sarà tutt’altro che facile. Le monete d’oro trovate per caso dalla donna gli darebbero modo di saldare il debito, ma un momento prima di cambiarle in denaro corrente (e due momenti prima aver scoperto che non sarebbero state sufficienti a tacitare il creditore), Rahim ha una crisi di coscienza e decide di rintracciare chi le ha smarrite e di restituirgliele. L’atto di bontà attira l’attenzione dei dirigenti del carcere che intravvedono l’occasione di pubblicizzare la validità delle loro pratiche di riabilitazione. Viene convocata la Tv, si attivano le associazioni caritatevoli, i social media si scatenano e tutta la vita di Rahim diventa di dominio pubblico.

AD OGNI passaggio le complicazioni si moltiplicano, i soggetti interessati allargano i loro più o meno legittimi interessi e le ambiguità morali si diffondono come un epidemia. In questa incontrollabile onda montante, Rahim appare sempre più inadeguato e il suo sguardo fissato nello stesso sorriso vuoto cessa di offrire solidi appigli allo spettatore. Quello che all’inizio sembrava una sorta di spirituale candore, e quindi perde ogni assolutezza e lo spettatore che aveva iniziato a chiedersi cosa avrebbe fatto se si fosse trovato nei panni del protagonista trova sempre meno appigli per identificarsi e inizia a giudicarlo.

IL PASSAGGIO da un modello vagamente dostojevskiano, dove l’idiota attraversa un mondo che non lo riguarda, a uno di ascendenza renoiriana, in cui tutti hanno le loro buone ragioni, non è indolore, anche perché in quelle che, con l’andare del racconto, degenerano in vicende poco più che mediocri a mancare è proprio il tragico della vita. Per strappare un’emozione il regista gioca la carta del figlio balbuziente costretto alla menzogna, ma anche questo passaggio viene disinnescato dal finale, aperto come sempre. Un film riuscito a metà.