La Conferenza Cop 26 a Glasgow sul clima, che ha avuto una significativa anticipazione col G20 di Roma, si è conclusa con un accordo finale che ha ricevuto le critiche di molti paesi partecipanti, per non parlare dei movimenti ambientali che hanno parlato in modo netto di «fallimento».

A proposito delle modalità operative di affrontare il cambiamento climatico le esternazioni più significative le hanno fatte due ex banchieri, dandoci un prezioso filo rosso per capire dove tutto questo processo può andare a parare. Una è di Mario Draghi quando afferma: «Non è un problema di soldi. Oggi abbiamo capito una cosa: a prescindere dal fatto che si tratti di nuove tecnologie o programmi infrastrutturali per l’adattamento ai cambiamenti climatici, il denaro può non essere più un vincolo se portiamo dalla nostra parte il settore privato. Parliamo di decine di trilioni di dollari».

Il secondo e – almeno in Italia – meno conosciuto ex banchiere è Mark Carney, governatore della Bank of England fino a marzo 2020, che ha detto: «Se guardiamo alla situazione oggi, vediamo che ci sono 130mila miliardi di dollari nel core della finanza globale che in modo crescente cercano progetti ad emissione zero, e sarebbero lieti di andare presso una grande impresa per prestarle i soldi o investirci se hanno dei piani per abbattere le emissioni».

Già sappiamo che aggressive lobby legate a pensatori liberisti e agli evangelici hanno cercato di minimizzare l’impatto del cambiamento climatico screditando coloro che lo sostenevano. Adesso che ai grandi vertici se ne parla senza tentennamenti la strategia probabilmente può considerarsi esaurita, ma Carney fa intravedere un pericolo ancora più grande: l’alta finanza vuole mettere le mani sul tema.

L’ex governatore non parla a titolo personale, ma a nome di un gruppo chiamato Glasgow Financial Alleance for Net Zero (Gfanz) che comprende 450 soggetti appartenenti ad ogni segmento del settore finanziario: assicurazioni, banche, agenzie di rating, consulenza finanziaria, un po’ tutti insomma: da McKinsey a Deutsche Bank, da Morgan Stanley ai Lloyd. Tutti appassionati al fine di decarbonizzare l’economia, con altisonanti dichiarazioni e patinate brochure con illustrazioni di pale eoliche nel verde.

Già il fatto che la punta di diamante della finanza globale investa in un enorme numero di attività ambientalmente dannosissime con pochi imbarazzi dovrebbe indurre qualche sottile dubbio sulla genuinità di un tale afflato ecologista. Ma se vediamo le linee di proposta leggiamo di tre livelli specifici: nuovi investimenti di capitale, gestione degli investimenti già esistenti e advocacy presso presso (altre) potenti corporation. Se colleghiamo il primo elemento col discorso di Draghi si colgono le (non troppo sorprendenti) implicazioni: dato che la conversione dell’assetto economico in chiave ambientale comporterà grandissimi costi, per sostenerli sarà indispensabile la cooperazione del settore privato.

Ricorda abbastanza la gestione dei servizi per i cittadini con partnership pubblico-privato, che in generale finivano bene per il privato e maluccio per il pubblico (sia nel senso dello Stato, che alla fine doveva cacciare i soldi per remunerare la controparte, sia per i cittadini-fruitori, che si trovavano con bollette esose e servizi non sempre all’altezza). Qui si parla di nuovi investimenti, e presumibilmente di prodotti finanziari «green» – campo in cui la Commissione UE si è già assai portata avanti, vedendo la finanza «verde» un’occasione per affermare la potenza dell’euro e fattore di maggiore competitività mondiale.

Da molti si propone l’emergenza ambientale per trasformare una crisi in opportunità; ma presso il gruppo Gfanz l’opportunità pare essere non quella di cambiare il sistema in modo sostanziale, ma di rinvigorirlo volgendo a vantaggio dei soggetti dominanti e padronali l’energia politica, col mitico «capitalismo verde». Di sicuro è chiaro quando Draghi nomina «la nostra parte» a quale parte si riferisca e di che qualità sia il suo «ambientalismo».