A Chiara – applaudito ieri alla Quinzaine, che in sala arriverà con Academy Two e Lucky Red – inizia e finisce con una festa dei diciotto anni: due situazioni quasi opposte che si specchiano l’una nell’altra in una siderale distanza. Nel mezzo c’è una vita che cambia, ci sono un’esperienza di consapevolezza e una scelta – quella della giovane protagonista – che non sarà mai condivisa intimamente fino in fondo, che galleggia nella malinconia celata, negli spazi dei nuovi affetti, in un riflesso sfumato di una memoria «segreta».
Ma chi è Chiara? Una ragazzina di quindici anni all’inizio della storia, e di diciotto alla fine, la prima festa è della sorella, la seconda è la sua. E lei la protagonista del terzo film di Jonas Carpignano in cui il regista ritrova ancora una volta il paesaggio di Gioia Tauro, la città calabrese dove vive; quasi una geografia dell’immaginario quella che ha composto attraverso i suoi film – prima di A Chiara, Mediterranea e A Ciambra, e di quest’ultimo ritornano qui alcuni dei protagonisti, Pio Amato e sua cugina Patatina ormai cresciuti – che cerca di raccontare un territorio nella sua realtà di conflitti ma senza intrappolarlo nelle iconografie dominanti dell’ arcaismo mafioso alle quali spesso viene ricondotta la Calabria.
Ciò che lo interessa è la dimensione quotidiana che i suoi protagonisti, sempre giovani come tanti altri ovunque nel mondo, affrontano, dove crescono, cambiano, si confrontano con quanto li circonda e con l’imprevisto della vita. La ’ndrangheta c’è, partecipa al tessuto sociale, economico, famigliare, anzi in A Chiara è uno dei motivi da cui si origina il racconto: ma non è quella dei grandi boss o delle esecuzioni spettacolari, siamo davanti piuttosto a lavoratori del crimine, persone come il padre della protagonista che «organizzano» la loro attività in modo quasi banale e in una rete di famiglia: i nascondigli, la droga tagliata in una panetteria, i trasporti fatti con vecchie macchine scassate. Tutto è «ordinario», rischi compresi, l’obiettivo è andare avanti, campare, in assenza dello stato e di altro.

EPPURE dalle prime inquadrature Carpignano costruisce una suspence fortissima: non è ancora accaduto nulla ma sappiamo che sta per succedere appena vediamo Chiara – la magnifica Swamy Rotolo – in palestra, e poi entrare in casa dove le persone iniziano a portare i regali alla sorella, Giulia, che sta per spegnere le diciotto candeline. Davanti alla tv giocano con la sorellina minore e il padre: affetto, dolcezza, complicità di una famiglia «normale».

LA FESTA è lunghissima, quel padre amatissimo – patriarcale con discrezione – si commuove, gioca, le ragazze ballano, gli sguardi si intrecciano, palpitano. La sensazione di pericolo è sempre lì, continua a crescere, a scivolare tra le carte brillanti e i doni, la musica e le risate. Non c’è bisogno di effetti speciali, in questo prologo «sospeso» Carpignano si affida al cinema, alla messinscena, a gesti fluidi, fisici, vicini ai corpi, ai dettagli, che escludono il virtuosismo: non è questa la sua cifra, non ne ha bisogno, le sue immagini non vogliono «dimostrare», sono movimento sensibile, energia, lavorano in profondità.
E quel pericolo si fa allora presagio, come se fossimo già nella testa (e nel cuore) di Chiara, nei suoi occhi posati su quanto la circonda, seppure di stato d’animo ancora inconsapevole. Il padre all’improvviso sparisce. Chiara scoprirà che è ricercato per crimini mafiosi, che in casa sua c’è un bunker nel salotto, che lei è l’unica a non sapere nulla. Le sue domande alla madre, alla sorella, allo zio sono senza risposta ma lei vuole capire e più si scontra col silenzio più crescono la sua frustrazione, la sua rabbia, il suo dolore. Si può avere amato qualcuno senza condizione come lei il padre senza sapere nulla di questa persona? Si può avere vissuto in una famiglia felice che all’improvviso appare diversa da come si pensava?

TUTTO DIVENTA estraneo, persino gli amici più cari, il mare, il muretto tra quelle case spesso lasciate a metà, gli sguardi in palestra, la scuola. In rete circolano informazioni sul padre: cosa sanno gli altri, cosa sanno la madre, la sorella che sembrano avere conosciuto sempre ogni cosa? E perché lei no, perché lei non può? La rivolta di Chiara si trasforma in cattiveria, è ostinazione, violenza: arrivano i servizi sociali e la portano altrove, è minore sarà affidata a un’altra famiglia «per il suo bene», per spezzare il cerchio della mafia. Ma quale è il suo «bene» davvero?
Gli attori sono tutti non professionisti, la famiglia di Chiara è quella della protagonista, i Rotolo, e questo dà una dimensione di «prossimità» nella quale però Carpignano rimane in equilibrio lucido, sempre attento a mantenere ben chiara la distanza narrativa. Ciò di cui si parla non è la realtà in sé ma quanto ci è restituito a nel movimento del suo personaggio, in questa sua «battaglia» per ricomporre il suo rapporto con l’altro – chiunque sia, famiglia, ambiente, e anche sé stessa. Lui le sta sempre vicino, è dalla sua parte e non giudica mai nessuno dei personaggi, il suo non è un mondo binario di buoni e cattivi, ma complesso, di sfumature e di contraddizioni.

«A CHIARA» È UN FILM di interni – tanto A Ciambra era di esterni – si snoda nei passaggi segreti (come quelli di una fiaba nera), quei cunicoli di cui i luoghi intorno sembrano essere pieni, che disegnano un universo sotterraneo – o capovolto, chissà – e che seguono l’interiorità della ragazza, la sua fragilità e insieme determinazione. Quella di Chiara è una scelta anche se obbligata da una legge assurdamente crudele, togliere i figli alle famiglie dei mafiosi per preservarli dal destino criminale nella quale nessuno sembra credere – la litania dell’assistente sociale è così «falsa» di fronte allo spaesamento doloroso della ragazza. Eppure. Per accettare tutto questo deve essere lei a decidere, dovrà «vedere»: il padre in azione, il padre che l’ama e le mostra il mondo degli uomini alle ragazze proibito, e in questa dichiarazione di rispetto Chiara finalmente sa.
Nella festa dei suoi 18 anni, sobria e elegante, in quella vita di «salvezza» circondata da amore sarà per un po’ lontana. Rimpianto, nostalgia, tristezza? Chissà. La vita (il cinema) che crea Carpignano non ha certezze, ma lascia aperti gli interrogativi che essa stessa pone.