Ieri su questo giornale Alberto Negri raccontava come, dopo otto anni, non sia ancora finita la giostra sanguinosa della guerra in Siria.

Con la sua scia di vittime, di migrazioni in massa, di terrorismo di ritorno a casa dei foreign fighters. Le spoglie delle macerie che restano vengono ancora contese proprio da chi, Stati uniti, Turchia e Arabia saudita – intervenuti con lo schieramento degli «Amici della Siria» dov’erano in prima fila tanti Paesi europei a cominciare dalla Gran Bretagna e dalla Germania – non solo non ha combattuto l’integralismo armato e criminale dell’Isis, ma di quello si è servito per distruggere il Paese tentando, ma senza riuscirci stavolta, la stessa operazione di destabilizzazione avviata con la guerra Nato in Libia. Bene.

Mentre questo circo è ancora in piedi, ecco che in un altro emisfero, e sempre con la parola d’ordine dell’«intervento umanitario», un nuovo luna park si allestisce in Venezuela da nuovi «amici», stavolta del Venezuela.

Gli «amici» hanno iniziato una campagna di sostegno all’autoproclamato presidente Guaidó e contro il «dittatore» Maduro – inesorabilmente giudicato come dittatore. Nonostante che in quel Paese dall’avvento di Chavez nel 1998 a oggi di elezioni, locali, politiche e presidenziali, quasi tutte con partecipazione dell’opposizione, ce ne siano state 25, tutte vinte dai governi «bolivariani» in carica, tranne due invece perse.

Non spiegando però come sia possibile che esista, in una «dittatura» un parlamento eletto e una Costituzione sulla quale – con imbroglio, visto che un presidente della repubblica eletto c’è – ha giurato l’autoproclamato Guaidó per dichiararsi presidente il 22 gennaio scorso.

Così l’Unione europea ha dato un ultimatum e avviato il riconoscimento di Guaidó; poi ha bloccato a Londra, come da copione libico-balcanico e in aperto disprezzo del diritto internazionale, quasi dieci miliardi in oro della divisa di Stato venezuelana che deriva dal commercio internazionale del suo petrolio – giacché, non dimentichiamolo, ci troviamo di fronte al Paese che detiene le principali risorse petrolifere del pianeta. La puzza di petrolio in questa crisi è asfissiante. Infine, mentre privava quel popolo di una fonte così rilevante di sostentamento, ha inviato «ben» 20 milioni di derrate alimentari e farmaceutiche alla frontiera della Colombia – paese dove alligna una drammatica, quanto nascosta dai media internazionali, crisi umanitaria.

È passato un mese e mezzo, e la prova di golpe che puntava alla divisione delle Forze armate da subito, schierandole a favore o contro l’ingresso dei cosiddetti «aiuti umanitari», è di fatto fallita; Guaidó stesso – un signor nessuno, diventato per caso capo dell’Assemblea nazionale e cresciuto nelle scuole delle rivoluzioni eterodirette di Otpor, finanziate dagli interessi statunitensi – è sparito per due settimane.

Periodo nel quale a quanto è dato sapere, ha preso suggerimenti dal «democratico» Bolsonaro, il fascista ex militare diventato capo di stato in Brasile, e dai presidenti d’estrema destra riemersi in quello che si profila, in America latina, come il nuovo «cortile di casa» degli Stati uniti. Aiuti? No, la destabilizzazione, che approfitta della reale crisi economica interna e del caos inflattivo, prodotti in primis da una economia monoculturale e dalla corruzione che strettamente ne deriva, può e deve continuare. Non solo mettendo popolo contro popolo, manifestazione contro manifestazione, ma con azioni di boicottaggio mirate. Da due giorni il Venezuela è quasi completamente al buio. Maduro grida al sabotaggio esterno e Guaidó incredibilemnte «rivendica», annunciando che con lui al potere «la corrente tornerà».

Di sabotaggio purtroppo si tratta, ed è il primo passo materiale per un conflitto civile la cui vastità e gravità sono impensabili, ma del quale c’è già stato l’esperimento delle guarimpas: le provocazione violente messe in piazza da una opposizione violenta, divisa e da sempre filogolpista: le decine e decine di vittime degli scontri del 2017-2018 sono infatti dell’una e dell’altra parte. Senza dimenticare i due pronunciamenti militari che ci sono stati.

Ecco il luna park che ricomincia, ecco il buio del mondo che stavolta precipita sul Venezuela. Se continua, esploderà in una guerra civile diretta dall’esterno, con tanto di strategia dell’Occidente, impegnato in uno scontro strategico contro i nuovi interessi russi e soprattutto cinesi nel paese e nel Continente latinoamericano, mentre già si pensa a nuove sanzioni contro Cuba. Il tutto al seguito della volontà dello psycho-presidente Usa Trump, «razzista, imbroglione, truffatore e interessato solo ai suoi affari», secondo le parole del suo avvocato reo confesso Michael Cohen, ma è l’accusa che ripetono in questi giorni i Democratici americani.

Lo psycho-Trump intanto ha nominato come inviato speciale per il Venezuela l’esperto Elliot Abrams, l’ispiratore degli squadroni della morte in salvador e Guatemala negli anni Ottanta.

L’unica soluzione sarebbe il dialogo e l’avvio di un tavolo negoziale sul processo democratico, con riaccreditamento a ruolo di pace della Chiesa locale, prò non proprio amica del papato di Bergoglio. Ma invece che promuovere una mediazione, l’Unione europea – che vive una crisi d’identità e di democrazia profonde, a Londra preparano l’evacuazione militare dei monarchi di fronte al «deal» della Brexit, in Spagna i presidenti eletti dell’autonomia catalana sono in esilio e i governanti in galera, in Francia una parte dei jilets jaunes chiama all guerra civile e in Polonia i leader dell’opposizione li ammazzano – acclama e soccorre l’autoproclamato Guaidò e rivendica il sequestro della divisa aurea del Venezuela, tagliando così i piedi ad ogni possibile dialogo.

«Se la prova di golpe non viene fermata – ammonisce l’autorevole sociologo Raúl Zibechi, pur critico di Maduro – salta tutto»; e non ci sarà alcuna possibilità di critica, necessaria, sui limiti e sui gravi errori di quello che è stato chiamato «socialismo bolivariano», che pure per due decenni, rimettendo in discussione i rapporti di proprietà, aveva trasformato positivamente il Paese, ma che ora – come negarlo – sopravvive in difesa e rischia un drammatico crepuscolo.