Il bilancio dei morti nel centro commerciale di Kremenchuk sale ufficialmente a 20 e quello dei feriti a 60, di cui molti in gravi condizioni. Al momento, ci sarebbero almeno 50 dispersi. Ciò che stupisce, nel quinto mese di guerra, è che anche su questo episodio l’opinione pubblica occidentale sia riuscita a dividersi in fazioni tra i sostenitori delle «versioni alternative» e gli ultras dei «nuovi partigiani» ucraini come estremo baluardo della democrazia.

Forse non è ancora chiaro che in questa dicotomia oziosa e deleteria a pagare il prezzo più alto sono sempre i civili. Che meriterebbero il ruolo di protagonisti di un ragionamento serio e non di bandiere agitate dall’una o dall’altra fazione.

SUBITO DOPO l’attacco, avvenuto lunedì intorno alle 16, l’addetto stampa dell’amministrazione regionale di Poltava (dove si trova Kremenchuk), Kyrylo Tymoshenko, aveva dichiarato che due missili lanciati da cacciabombardieri russi avevano colpito un impianto per la produzione di macchinari e pezzi di ricambio chiamato «Kredmash» e un centro commerciale adiacente. Nell’incendio che ne è scaturito diverse persone hanno perso la vita e molte altre sono rimaste ferite. Il governo ucraino, tramite le parole dello stesso presidente, Volodymyr Zelensky, parla di «numero di morti inimmaginabile»: nel complesso si sarebbero trovate mille persone al momento dell’attacco.

Di contro, i canali russi e il ministro degli esteri di Mosca, Sergey Lavrov, ribattono che il centro commerciale era vuoto da settimane e che l’incendio è una conseguenza della detonazione del missile che ha colpito soltanto l’impianto Kredmash, definito «una fabbrica che riforniva l’esercito neo-nazista di Kiev».

Zelensky, nel suo consueto discorso notturno, ha definito l’attacco «uno degli atti terroristici più audaci della storia europea», specificando che si tratta di un atto deliberato e non di un errore di traiettoria. Di conseguenza, nella sua conversazione con il segretario generale della Nato Stoltenberg di ieri mattina, il presidente ucraino ha esortato l’Alleanza atlantica a fornire «un potente sistema di difesa missilistica all’Ucraina al fine di prevenire gli attacchi terroristici russi».

Anche i leader del G7, riuniti ieri a Madrid, si sono espressi sull’attacco definendolo «abominevole» e aggiungendo che «gli attacchi indiscriminati contro civili innocenti costituiscono un crimine di guerra». «Non ci fermeremo finché la Russia non porrà fine alla sua crudele e insensata guerra contro l’Ucraina», hanno fatto sapere i capi di stato nella dichiarazione a conclusione dell’incontro.

IMMEDIATA la risposta di Mosca, affidata ancora una volta al potente ministro Lavrov, che ha rilasciato dichiarazioni incendiare in una conferenza stampa davanti ai media russi. «Più armi saranno spedite in Ucraina dall’Occidente per allungare il conflitto e per allungare le sofferenze dei civili che vivono continuamente sotto i bombardamenti del regime neonazista ucraino, e più operazioni noi svolgeremo sul campo». Quasi in contemporanea, diversi media online russi hanno rilanciato una nota del Cremlino in cui si afferma che «la guerra finirà non appena l’Ucraina si arrenderà».

È evidente che siamo ancora lontani dalla pace. Kiev ha più volte dichiarato che si siederà al tavolo negoziale solo quando riuscirà ad attestarsi su posizioni più vantaggiose di quelle attuali sui vari fronti. Sa che una trattativa ora implicherebbe l’abbandono del Donbass, di Mariupol, di parte dell’oblast di Zaporizhzhja, di Kherson e di parti della regione di Kharkiv. Zelensky non può permetterselo, i suoi non glielo farebbero fare mai. Dopo aver motivato un Paese (e in qualche modo il mondo) alla resistenza, il presidente ucraino non ha molte scelte.

Dal canto suo Mosca non ha fretta, ora che Severodonetsk è caduta e Lysychansk è in grave difficoltà, le operazioni nell’est proseguono con maggiore intensità, al netto dei 124 giorni di conflitto e degli oltre 15mila soldati caduti (secondo le stime più conservative dei vari centri di studi occidentali).

SE I LANCIARAZZI Himars e altri armamenti cambieranno davvero la situazione sul campo non è dato saperlo ma è evidente, e tutti a un certo punto dovranno ammetterlo, che questa situazione ha un costo umano altissimo. Soprattutto tra i civili che vivono in regioni, quelle orientali, già vessate da otto anni di guerra a «bassa intensità».

A Lysychansk, dal fine settimana scorso sono iniziati i primi scontri di fanteria. I russi sono riusciti a conquistare la fabbrica della gelatina e sono nei pressi della raffineria. Il capo dell’amministrazione militare cittadina, Valery Shibiko, intervistato ieri al telefono, ha descritto una situazione drammatica.

Bombardamenti incessanti, enormi difficoltà nel ricevere aiuti umanitari, semi-isolamento dal resto della regione e combattimenti che si sono già trasformati in scontri casa per casa nelle zone periferiche della città. L’autostrada di fondamentale importanza strategica che da Lysychansk porta a Bakhmut in teoria è ancora sotto il controllo ucraino ma ieri non è stato possibile accedervi: l’attività dell’artiglieria russa non concede requie.