«Questo processo toglierà il velo a una frode di proporzioni globali». Così ha esordito il procuratore Denton all’apertura del processo che vede gli Stati uniti contro Mehmet Atilla, vicedirettore della banca statale turca Halkbank.

Atilla è accusato, insieme ad altre otto persone, di aver architettato un sistema finanziario che ha consentito all’Iran di aggirare le sanzioni economiche imposte dalle Nazioni Unite in seguito al tentativo di sviluppare il nucleare.

Ma la vera star del processo è Reza Zarrab, finanziere con doppio passaporto turco-iraniano. Zarrab, la mente del sistema, è stato arrestato negli Stati uniti nel marzo 2016. Per un anno ha cercato di sfuggire alla giustizia americana, aiutato dal governo turco che ne chiedeva l’estradizione.

Poi, a pochi giorni dal processo e dopo un lungo silenzio, la svolta: Zarrab si dichiara colpevole e stringe un accordo di protezione, trasformandosi da imputato a supertestimone.

Vuota un sacco da cui stanno uscendo nomi importanti: il direttore di Halkbank, Suleyman Arslan, e politici turchi di grossissimo calibro come l’ex ministro dell’economia Caglayan, l’ex ministro del tesoro Babacan, l’ex ministro per gli affari europei Bagis, fino al nome più importante, quello dell’allora primo ministro e oggi presidente della repubblica Erdogan.

Secondo Zarrab, l’intero governo turco avrebbe sostenuto la creazione di questo sistema anti-sanzioni attraverso banche turche. Non solo Halkbank, ma anche Ziraat Bank, DenizBank, Vakif Bank, mezzo sistema bancario turco. E quando incontrava resistenza o esitazione, Zarrab pagava: 50 milioni di euro e altre valute finiti nelle tasche di Caglayan, che dalle transizioni avrebbe voluto ricavare la sua fetta di guadagno, due milioni ad Arslan, tanti milioni che «a volte pagavamo la persona sbagliata o l’importo sbagliato».

La procura americana porta davanti al giudice Berman non solo la testimonianza di Zarrab, ma anche 10mila pagine di documenti, incluse mail tra Zarrab ed esponenti iraniani e turchi. Caglayan si sarebbe personalmente incontrato con il governo iraniano per discutere questo piano di «Jihad economica», come definita da Zarrab in una mail all’allora presidente iraniano Ahmedinejad.

Ogni giorno circa 10 milioni di euro si sarebbero mossi per conto della banca centrale iraniana attraverso Bank Mellat e Sarmeyeh Bank, due delle maggiori banche in Iran, verso conti turchi. Dopo alcuni passaggi in banche locali – secondo Zarrab – venivano convertiti in oro trasferito materialmente a Dubai.

L’oro era venduto e il denaro utilizzato per i pagamenti iraniani attraverso uffici di cambio. I soldi erano i proventi della vendita di greggio iraniano, in particolare a società di India, Cina, Corea, Giappone ma anche Italia. I pagamenti venivano depositati su conti turchi prima che Zarrab li facesse sparire. Il finanziere sostiene di essere riuscito così a far svicolare tra le maglie delle sanzioni «qualche miliardo di euro».

Il verdetto del processo si trasformerà in un terremoto politico capace di scuotere sia l’economia turca che le già precarie relazioni tra America e Turchia, dove i media dipingono il processo come un attacco del tandem Cia-Gulen nei confronti del governo Akp, mentre esponenti di quest’ultimo liquidano il processo come un caso politicamente motivato.

Da Ankara Erdogan ha dichiarato che il paese ha sempre avuto rapporti economici con l’Iran in ottemperanza con le disposizioni internazionali, ma ha anche ricordato che il mondo non è gli Stati uniti, le cui esigenze non possono essere assunte a esigenze globali.

Resta da chiedersi – al netto delle parole di un uomo che vuole evitare il carcere – perché la Turchia avrebbe dovuto aiutare l’avversario iraniano. Se i rapporti politici tra Iran e Turchia sono da secoli dettati da forte rivalità, quelli economici sono stabili: le sanzioni Onu non hanno danneggiato solo Teheran ma anche le economie dei paesi vicini.