Dopo la pubblicazione della Sciarpa rossa per La nave di Teseo e di Nell’inganno della soglia per il Saggiatore, arriva in libreria un inedito di Yves Bonnefoy, significativamente intitolato Insieme ancora seguito da Perambulans in noctem (il Saggiatore «La cultura», pp. 248, € 23,00), che rappresenta una sorta di testamento poetico dell’autore francese scomparso nel 2016 alla ragguardevole età di 93 anni. Tradotto fedelmente da Fabio Scotto, a cui dobbiamo la curatela di parecchi titoli di Bonnefoy, tra cui i due summenzionati e il «Meridiano» dell’Opera poetica (2010), il volume fu originariamente licenziato dal poeta presso il Mercure de France nel 2016. Si può quindi considerare come un «lascito» che sembra idealmente ripercorrere, in virtù di un approccio quanto mai versatile nella forma e nei contenuti, la poetica stessa di Bonnefoy. Si tratta infatti di una raccolta composita che passa indifferentemente dal poemetto al sonetto, da una sequenza di stralunati dialoghi alle prose finali che contrassegnano Perambulans in noctem.

L’impressione è che la parola di Bonnefoy si sia ulteriormente rastremata, acquistando in extremis una lapidarietà, un’esemplarità che si manifesta appieno nel poemetto Insieme ancora: «Bella la luce / Che avvolge, a sera, / Questi mandorli che avevamo piantato. / Ah, amica mia, / Credo, quasi so / Che la bellezza esiste e significa. Credo / Che abbia ancora senso far nascere, / Attesto che le parole hanno diritto al senso. / Comunque quanto è difficile / Fare di questa fede un pensiero, / Quanto sembra naturale averne vergogna!». È paradigmatico che questi versi, dedicati alla moglie Lucy, riecheggino l’esperienza più volte descritta di Valsaintes, nell’alta Provenza, dove nel 1963 il poeta acquistò una chiesa abbandonata che segnerà indelebilmente la sua poetica, a cominciare proprio da alcuni topoi presenti in Dans le leurre du seuil: «Io il mandorlo / Entro agghindato nella stanza nuziale» (La terra).

Ma è presente soprattutto il motivo della condivisione, dell’amicizia, che si dirama attraverso il filo di una memoria cadenzata intorno ad alcune esperienze che, in qualche modo, si riconnettono al ciclo delle stagioni e degli elementi naturali: «Amici miei, amate mie, / Vi lego i doni che mi faceste, / Questa terra vicina al cielo, ad esso avvinta / Da queste innumerevoli mani, l’orizzonte. / Vi lego il fuoco che guardavamo / Ardere nel fumo delle foglie secche». Così, il tema del «legato», già accolto in L’heure présente, perde ogni connotazione giuridica e si conferma come un Leitmotiv nella produzione dell’ultimo Bonnefoy, investendo acqua, fuoco, cielo, terra: «Cosa ho da legarvi? Quel che ho desiderato, / La pietra calda di una soglia sotto il piede nudo, / L’estate ritta, con le sue ondate improvvise, / Il dio in noi che non avremo avuto».

Non è un caso che i tre movimenti di Insieme ancora accolgano espliciti riferimenti alle Enneadi di Plotino e all’epitaffio di Kierkegaard reinterpretato dall’amico Jean Wahl (ma non mancano richiami a Hofmannsthal, Yeats e alla figura del poeta Gilbert Lely, insigne studioso di Sade). La «Coppa della fiducia» tratteggiata nell’incipit della seconda parte non può non far pensare al Graal e all’interesse nutrito nei confronti dei miti che sfocerà nell’impeccabile curatela del Dizionario delle mitologie e delle religioni (Bur, 1989).

Il dittico successivo, composto dalle sezioni L’Orsa Maggiore e Il piede nudo, costituisce uno dei punti salienti della raccolta. Sembra che il genere stesso (poesia, prosa, dialogo di matrice platonica?) sia stato bandito in virtù di un serrato scambio di impressioni tra due entità che solo a tratti manifestano un comune retaggio, richiamandosi alle Operette morali di Leopardi o a quei colloqui «metafisici» di Poe (Monos e Una, Eiros e Charmion ecc.) che sembrano derivare da una condizione ectoplasmatica, di post mortem. Questi «interlocutori non identificati», secondo la definizione del curatore, adottano frasi brevi secondo l’antico uso della sticomitia teatrale, rivelando tutta la loro inadeguatezza a comprendere il mondo fenomenico. Gli avvenimenti descritti sono evanescenti, indistinguibili, i medesimi esseri interroganti sembrano passare senza soluzione di continuità dallo stato solido a quello liquido, da quello liquido al gassoso, la carne si riduce a un anemone, il silenzio contiene una catena di urla sottaciute. Si vive come acrobati in bilico sull’abisso, ci si interroga con innocenza infantile intorno alla natura delle cose senza capire perché, condannati al vincolo atavico di un’ignoranza priva di redenzione. La stessa presenza fisica è messa in discussione: «Io vedo del bianco. Molto bianco. Sei tu?».

L’autore non ricorre né a virgolette né a trattini per circoscrivere le conversazioni proposte e spesso, come in una dissolvenza incrociata, le proposizioni di un personaggio sembrano sfumare in quelle della sua interlocutrice. Diventa quasi paradossale il riferimento alla formazione scientifico-filosofica dell’autore, laddove la figura del poeta-astronomo si riduce a questo «infinito approssimarsi all’inafferrabile» (Scotto) mediante una corona di domande volutamente puerili: «Saprà chi sono? Perfino che esisto?»; «Il mio nome? Davvero sai cos’è un nome?». Quest’anomia, svilita in anatomia dalle reminiscenze beckettiane, istituisce una sorta di contrasto «tra il freddo della notte e il calore di un nuovo fuoco», per usare la definizione di Starobinski, che si instaura nell’attraversamento di una soglia, immagine ricorrente («Incombevano dietro la porta, tendevano le loro mani» si legge qui) che acquista un valore archetipico.

«Tu hai sempre preferito le parole alle cose» osserva emblematicamente l’interlocutrice in uno dei rari momenti dialettici non dominati da un simile stato di trascendenza. E, memore del De rerum natura di Lucrezio: «Come sapere? Delle cose, le cose. / Le cose? Che cosa sono?». Tale récit en rêve sfocia nelle sezioni successive che risultano speculari, essendo dedicate rispettivamente alla musica (Insieme la musica e il ricordo) e alla pittura (Poesie per Truphémus). La sequenza di sette sonetti che connota Insieme la musica e il ricordo, formalmente analoga a quella intitolata Briefwege, introduce alle liriche ispirate al pittore Jacques Truphémus, amico di Bonnefoy, riconnettendosi ad alcuni testi campali come L’uva di Zeusi, Ancora l’uva di Zeusi, confluiti nella raccolta La vita errante (1993) e Dedham, visto da Langham, tratta da Quel che fu senza luce (’87). Non si dimentichi inoltre l’attività critica che annovera studi su Giacometti, Goya, Morandi, Hopper (l’ultima poesia di questa sezione è ispirata a un suo celebre dipinto), la rivisitazione del barocco effettuata in Rome 1630. Chiudono il volume le due sezioni di prose di Perambulans in noctes, il cui titolo è ripreso da un trattato gnostico di epoca alessandrina.

Non resta che segnalare l’omaggio di Scotto intitolato 63 e 72, Rue Lepic. Due lettere a Yves Bonnefoy (pp. 90, € 12,00) che Il formichiere licenzia contestualmente al libro del Saggiatore. Arricchito da una serie di illustrazioni di Lino Di Lallo, il libriccino accoglie due lettere scritte da Scotto al suo illustre referente dopo la scomparsa di quest’ultimo, tese a mettere in rilievo l’aspetto umano e la profonda abnegazione di Bonnefoy nei confronti di ogni iniziativa concepita all’insegna della poiesis. Si passano così in rassegna aneddoti riconducibili agli incontri tra maestro e allievo nonché alle prime versioni edite dal Bradipo fino all’approdo nello «Specchio» mondadoriano con Le assi curve (2007) e L’ora presente (’13), passando attraverso l’eterogenea sequenza di titoli tradotti