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Xiaoxuan Jiang, di cavalieri e di turisti

Xiaoxuan Jiang, di cavalieri e di turisti

Venezia 81/ Intervista «To Kill a Mongolian Horse», l’opera prima della giovane regista Xiaoxuan Jiang, presentata al Lido alle Giornate degli Autori

Pubblicato circa un mese faEdizione del 7 settembre 2024

L’immersione nella cultura mongola, il legame profondo tra umano e animale, un territorio che sperimenta cambiamenti profondi: sono alcuni degli elementi di To Kill a Mongolian Horse, l’opera prima della giovane regista Xiaoxuan Jiang, presentata al Lido alle Giornate degli autori. Al centro vi è la storia vera di Saina, un cavallerizzo con crescenti problemi finanziari, tali da spingerlo ad abbandonare gradualmente i pascoli per indossare l’armatura ed esibirsi come performer-cavaliere negli show serali indirizzati ai turisti. La città o la campagna, la rampante economia cinese o la dura sussistenza mongola, il capitalismo o la tradizione, sono le fratture insanabili che sfociano in una corrente a cui pare non sia possibile opporsi, nemmeno con la testardaggine e il vero amore per i cavalli di Saina, che porta avanti da solo la sua resistenza silenziosa. Le due possibilità si riflettono nella lingua e nei modi di vivere, che Jiang filma con pazienza, mostrando la vastità dei paesaggi spogli e facendoci entrare nei gesti della cura degli animali di giorno, a cui fanno da contraltare le visioni delle performance notturne, realizzate tramite composizioni suggestive e scelte cromatiche forti, che evocano quell’eroismo del passato ormai perduto. Abbiamo incontrato a Venezia Xiaoxuan Jiang, che ha avuto la capacità di immergersi in un universo prettamente maschile per realizzare il suo affascinante esordio.

«To Kill a Mongolian Horse» è il tuo primo lungometraggio, come sei arrivata al cinema?
Prima di questo film avevo girato nelle stesse aree un corto, era il 2020, in quell’anno mi sono laureata negli Stati uniti e con la pandemia in corso ho deciso di tornare nella mia città d’origine nella Mongolia Interna, regione autonoma della Cina. Ho iniziato a riesplorare quei luoghi, essendo stata all’estero diversi anni, e ho iniziato a girare alcuni cortometraggi e a raccogliere materiali. Fino a quando ho pensato di lavorare sulla storia vera del mio amico Saina, che è un cavallerizzo (horseman), lo conoscevo da molto tempo. Ma poi due anni fa all’improvviso ha iniziato a partecipare a degli show serali come cavaliere, un’attività molto diversa che portava avanti insieme a quella abituale. Mi interessava questo cambiamento e mi ha invitata ad una di queste performance, sono rimasta colpita da come sembrasse una persona diversa quando era sul palco. Ho saputo poi che aveva delle difficoltà finanziarie, anche perché la regione sta diventando più dura per i mandriani in ragione del fatto che piove sempre meno. Saina stava quindi vendendo le sue pecore per ottenere del denaro con cui sostenersi, oltre a questo lavoro negli show di cavalli. Quindi di notte diventava un cavaliere che sorride ai turisti, di giorno la sua vecchia vita stava andando in pezzi. Ho pensato che tutto questo andasse catturato in immagini.

Nel film c’è una relazione complessa con la tradizione: è come se gli show portassero avanti alcuni usi e costumi dei cavalieri, e allo stesso tempo li distruggessero in virtù del consumo dei turisti. Un’analoga frizione avviene con la ex moglie di Saina che si è trasferita in città. Qual è la sua visione?
Credo di essere fortunata ad avere una prospettiva tanto interna quanto esterna, perché anch’io sono nata lì, sono cresciuta cavalcando e interagendo molto con i cavallerizzi. Allo stesso tempo sono etnicamente Manciù, non mongola, e poi ho studiato fuori. Ho potuto quindi guardare le persone di quell’area con occhi diversi. Sono d’accordo sul fatto che gli show di cavalli sembrano un’amplificazione o una preservazione di certe tradizioni, eppure sono un progetto turistico «artificiale» che va incontro a ciò che gli spettatori vogliono vedere della Mongolia: persone che cavalcano e cantano con vestiti colorati. È interessante poi che ci siano molti giovani mongoli coinvolti, è un lavoro che gli garantisce un’entrata stabile, e si sentono anche orgogliosi talvolta di fare parte di qualcosa di bello e di grande impatto visivo. È quindi una relazione complessa tra il pubblico e lo spettacolo che si guarda.

Hai menzionato l’aspetto economico, nel film vediamo la rapacità della Cina. Anche in questo caso, gli investimento possono aiutare le famiglie mongole ma distruggono la loro vita di un tempo.
Sì, accade spesso che un’entità esterna voglia ad esempio costruire una strada che passa per i pascoli e per farlo offre una compensazione a chi vive nell’area per abbandonare la casa e trasferirsi. Molte persone accolgono favorevolmente quest’eventualità per ragioni economiche. È una transizione che è più grande di noi e non possiamo sapere dove ci porterà.

Tramite la scelta di colori diversi nei sottotitoli, hai segnalato quando si parla mongolo e quando cinese. Ho avuto l’impressione che si ricorra a quest’ultima lingua soprattutto per parlare di soldi mentre si usa l’idioma locale per gli affetti, le relazioni, la famiglia.
È un aspetto che non avevo notato, è venuto in maniera spontanea nello scrivere la sceneggiatura. Di certo il protagonista ha come lingua madre il mongolo, ma parla anche il cinese in maniera fluente. Quindi con la famiglia userà il mongolo ma se vuole vendere le pecore e quindi arrivare a più persone possibile, userà il mandarino che tutti nella regione conoscono. C’è poi un’altra differenza tra il mandarino standard e il dialetto della regione, che è quello usato nel film, il linguaggio «ufficiale» è utilizzato solo durante un colloquio di lavoro e durante gli show di cavalli da parte degli speaker. Anche perché il mandarino parlato dai mongoli ha un accento così forte da non venire compreso da molti cinesi.

Un altro tema importante è la relazione tra umano e animale, che è davvero toccante: Saina può rinunciare a tutto, ma non al suo cavallo bianco.
I cavalli bianchi hanno un potere simbolico e spirituale molto forte per i mongoli, a partire dall’impero di Kublai Khan nel XIII secolo. Da un punto di vista cinematografico poi sono bellissimi e inoltre, era un cavallo bianco il primo esemplare acquistato da Saina nella sua giovinezza, e l’ha sempre tenuto nel suo ranch fino ad ora. È vecchissimo ma se ne prende cura e ha una sua foto appesa in casa, si può vedere nel film.

Sei una giovane regista che in questo film ha esplorato un mondo molto maschile. È stato facile per te immaginare i loro sentimenti? Che tipo di sguardo hai cercato?
Penso che l’iper-mascolinità e l’elemento etnico siano una parte importante di questi show, che viene osservata e celebrata. È uno sguardo feticista a mio parere e, anche nel contesto cinese, si guarda ai mongoli come ad un popolo intrinsecamente maschile. E trovo interessante che questo processo oggettivante e commercializzale avvenga in genere sul corpo femminile, basti pensare all’industria pubblicitaria, mentre in questo caso sono gli uomini a subirlo anche se non se ne rendono conto. E poi, da un punto di vista realistico, quello dei pascoli in Mongolia è davvero un ambiente iper-mascolino. Quando ero in giro per cercare le location mi è capitato spesso di essere l’unica donna in un gruppo di maschi e credo che questa situazione rifletta la condizione sterile e cupa della terra, se ci fossero donne in giro probabilmente l’immagine apparirebbe diversa. Sul set ho lavorato poi con molte donne, parte delle persone sono venute da altre aree della Cina e sono state «addestrate» dai locali.

Qual è stato il tuo approccio nel filmare il paesaggio?
Mi sono lasciata guidare dalla terra, che in questo momento affronta il cambiamento climatico ed è quindi molto vulnerabile a fenomeni atmosferici forti come le tempeste di sabbia durante la primavera e l’autunno. Credo che nella mia regione la natura mostri la sua brutalità nella maniera più intensa, è come se sulla terra ci fosse solo la pelle nuda.

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