Pinocchio ribelle senza causa, la sublime arte del rifiuto
Venezia 81 Il corto di animazione di Roberto Catani «Il burattino e la balena», fuga da una società di soprusi e conformismo
Venezia 81 Il corto di animazione di Roberto Catani «Il burattino e la balena», fuga da una società di soprusi e conformismo
Parlare di Pinocchio, in Italia, è un po’ come parlare di una sorta di mito letterario: uno dei personaggi moderni più noti, una storia talmente conosciuta da dare per scontato che tutti ne sappiano qualcosa al punto da concedere, a coloro che vogliano cimentarsi in merito, la possibilità di dare per scontato la trama generale per far risaltare questo o quell’aspetto particolare.
È attraverso questa premessa che si può contestualizzare Il burattino e la balena, il nuovo cortometraggio animato di Roberto Catani, fra i nostri poeti dell’immagine in movimento. Si tratta di un lavoro certosino durato anni, dal momento che Catani ha iniziato a concepirlo subito dopo la realizzazione del precedente Per tutta la vita (2018).
Sul piano metodologico Il burattino e la balena non si discosta molto dalla produzione dell’animatore marchigiano, visto che c’è sempre a monte un’idea di animazione radicata su una pratica del disegno e della coloritura rigorosamente a mano. Anche dal punto di vista stilistico-estetico si ha una forte continuità con le opere precedenti: dall’anatomia delle figure alla composizione del quadro, si ritrovano elementi presenti in altri film di Catani.
Tuttavia, per chi conosce l’opera dell’animatore marchigiano, queste impressioni sono ben lontane dall’essere un limite, un sinonimo di pigrizia creativa. Al contrario, contribuiscono a far risaltare meglio le scelte che questo artista compie per presentarci, in pochi minuti, la sua visione e interpretazione di Pinocchio come figura e come storia.
In Il burattino e la balena, Catani segue il personaggio nell’evoluzione iniziale che conosciamo: una volta venuto al mondo, mosso dalla più pura curiosità, Pinocchio compie i primi passi per affacciarsi fuori dal proprio limbo e farci intravedere ciò che dovrebbe essere o comunque rappresentare la realtà in cui è destinato a vivere.
Da questo punto in poi, però, le immagini forgiate da Catani ci rivelano un mondo in cui le illusioni da «Paese dei balocchi» si tingono della violenza storica e culturale del fascismo. All’animatore marchigiano bastano pochi elementi visivi per suggerire a Pinocchio – e a noi spettatori – come ciò che aspetterebbe il nostro burattino sarebbe una vita fatta di conformismo e soprusi.
A questo proposito, si può citare il momento in cui si vedono i ragazzini giocare a pallone. Oppure – forse – la sequenza più virtuosistica di tutto il film di Catani, quella in cui Pinocchio coglie i conigli neri riflessi portarlo via sulla bara, come fosse un esempio di cinema nel cinema capace di funzionare come una sorta di monito «nero» per il proprio futuro.
Arrivato a questo estremo, il film ci mostra come quanto abbiamo visto sia in diretto collegamento con la figura della balena nella storia, come se le immagini della realtà sui cui si è affacciato il nostro protagonista provenissero dal didentro dell’animale. Catani ci fa quindi tornare allo sguardo di Pinocchio che, preso atto di ciò che lo aspetterebbe «fuori», compie una scelta estrema: torna sui propri passi, rifiutando il destino che lo attenderebbe.
Questa decisione sottolinea come il film dell’animatore marchigiano sia leggibile, alla fine, in senso politico. L’attenzione critica, infatti, si sposta: da racconto di formazione, la materia narrativa si fa discorso di opposizione. Pinocchio personaggio incarna la contestazione vivente del Pinocchio racconto, vale a dire del suo stato di cose, della sua ineluttabilità. Se si vuole, l’esistenza del burattino è la metafora di coloro che si oppongono a dover vivere storie imposte. È l’incarnazione del diverso più autentico, cioè del «ribelle senza causa». E in questa scelta, il film di Catani – volenti o nolenti – si inscrive nella tradizione delle migliori riscritture creative dell’opera di Collodi, ovvero quelle di Giorgio Manganelli (in letteratura) e Carmelo Bene (in teatro).
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