La parola guerra torna a riecheggiare nei Balcani. A pronunciarla il presidente serbo Aleksandar Vucic: al termine di un incontro con gli ambasciatori del quintetto (Italia, Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Germania) ha sottolineato la necessità di prevenire un’escalation di tensioni in Kosovo facendo un parallelo con la guerra nel Caucaso.

«Il conflitto in Nagorno Karabakh mostra che un conflitto congelato può degenerare in qualsiasi momento, ha dichiarato Vucic. La situazione in Kosovo non è migliore per noi oggi, né sarà più facile nei prossimi mesi. Non dobbiamo lasciare ai nostri figli un conflitto congelato» per questo, ha proseguito Vucic, la Serbia continuerà a «rafforzare ulteriormente le proprie capacità di difesa e il proprio esercito».

Dure le reazioni dal Kosovo, bollate da Vucic come «isteriche» e frutto delle divisioni interne, culminate nella richiesta della presidente ad interim Vjosa Osmani e del premier del Kosovo Avdullah Hoti, all’Ue e alla Nato di condannare «le minacce di guerra dell’ex ministro del governo Milosevic».

Eppure quella condanna non c’è stata. In un comunicato la missione Kfor si è limitata a ribadire il suo sostegno al «dialogo tra Belgrado e Pristina, con l’aiuto dell’Ue, come unica soluzione politica permanente per la stabilità in Kosovo e nei Balcani». La Nato tra l’altro non può non tenere conto del fatto che nei Balcani è arrivato anche Erdogan.

Le dichiarazioni di Belgrado e Pristina andrebbero lette alla luce del prossimo cambio di guardia alla Casa bianca, da una parte e del processo iniziato lunedì scorso all’Aja contro alcuni ex guerriglieri dell’Uck, tra cui l’ex presidente del Kosovo Hashim Thaqi, accusati di crimini di guerra e contro l’umanità.

Vucic alle prese con un’opposizione interna crescente, teme il passaggio di consegne a Joe Biden, un presidente considerato da Belgrado «anti-serbo». Biden, senatore all’epoca del conflitto in Kosovo e tra i più accesi sostenitori dell’intervento Nato, in epoca più recente e da vice presidente nell’amministrazione Obama non aveva fatto mancare il suo sostegno al« George Washington del Kosovo», come definì Thaqi in un incontro alla Casa bianca nel 2010, nella delicata fase seguita alla proclamazione unilaterale d’indipendenza di Pristina del 2008.

Lo stesso presidente che in campagna elettorale aveva indirizzato una lettera alla diaspora albanese in America in cui sosteneva di voler riequilibrare la politica di Trump nei Balcani e di lavorare con l’Ue per raggiungere un accordo di mutuo riconoscimento.

Non proprio la lista dei desideri di Vucic che aveva trovato in Trump l’alleato perfetto, per il suo disinteresse verso la causa kosovara e per la condotta spregiudicata sul piano internazionale: il presidente serbo ha sfruttato da un lato la crepa apertasi nei rapporti tra Ue e Stati Uniti dall’amministrazione Trump, dall’altro ha amplificato l’alleanza con la Cina per ottenere vantaggi da Bruxelles e Washington sul terreno dei negoziati con il Kosovo.

Pristina deve guadagnare tempo: in tanti chiedono l’interruzione del dialogo con la Serbia. Voci interessate, come quella dell’ex premier Ramush Haradinaj che cerca di capitalizzare il processo contro i guerriglieri dell’Uck, inviso alla maggior parte del Paese, per farsi eleggere allo scranno presidenziale.

Voci preoccupate, come quella di parte della politica e della stampa kosovara che temono di vedere scalfita l’immagine della lotta per la liberazione del Kosovo proprio a causa del processo in corso all’Aja. Timori che la vittoria di Biden non è riuscita a sedare.

Al contrario a Pristina ci si interroga sulla reale discontinuità che il nuovo presidente vorrà imprimere alla politica estera Usa e se la maggiore cooperazione con l’Ue non si traduca piuttosto in una delega ai funzionari di Bruxelles, avvertiti come più sensibili verso Belgrado. Timori alimentati anche dalla svolta autoritaria data da Vucic al Paese e dal riarmo della Serbia che ha aumentato la spesa militare del 27% (2016-2018), e le esportazioni di armi del 364% (2016-2017). Altro che conflitto congelato.