Uno a zero per il popolo yemenita. Giovedì, con un atto senza precedenti, il Senato Usa si è ripreso il potere che gli riconosce la legge e ha sfidato apertamente la politica muscolare e bellicosa dell’amministrazione Trump in Medio Oriente: con 56 voti favorevoli e 41 contrari, i senatori hanno approvato la risoluzione bipartisan presentata dal democratico Bernie Sanders e dal repubblicano Mike Lee che chiede al governo l’interruzione del sostegno americano alla campagna militare saudita in Yemen.

Una sconfitta, per Trump, di cui si aveva già il sentore: due settimane fa il Senato, con larga maggioranza, aveva deciso di votare la risoluzione e pochi giorni dopo un falco Gop come Lindsey Graham (solitamente allineato alle politiche trumpiane) si era detto certo che Mohammed bin Salman fosse il mandante dell’omicidio del giornalista Khashoggi. «Sega fumante», aveva detto in riferimento allo strumento usato per fare a pezzi il corpo nel consolato saudita di Istanbul.

Quell’omicidio ha cambiato gli equilibri: molti paesi occidentali hanno «scoperto» che l’Arabia saudita non è un paese normale come fingono di credere da decenni. Indirettamente sono gli yemeniti a ottenere «risultati»: prima lo stop alla vendita di armi da parte di Germania, Danimarca, Olanda e Finlandia; poi le due inchieste aperte in Tunisia e Argentina contro Mbs per i crimini commessi in Yemen; e ora il Senato Usa che mette in discussione un pilastro della politica mediorientale di Trump, centrata sull’asse anti-Iran formato da Israele e Arabia saudita.

Non solo di Trump: a monte del voto sta l’amministrazione precedente, quella Obama, che nel 2015 garantì sostegno militare a Riyadh nel piccolo paese confinante (tecnologia, rifornimento dei caccia in volo, intelligence) senza passare per il Congresso. Che è il solo, dal 1973, a poter autorizzare interventi militari: lo dice il War Power Act, entrato in vigore all’epoca di Nixon, in piena guerra del Vietnam.

Prima di ieri quella legge non era mai stata applicata. Ora i senatori la portano fin dentro lo Studio ovale per chiedere che quell’autorità torni al parlamento. Non è ancora finita: la risoluzione dovrà affrontare all’inizio del 2019 la Camera. Una Camera diversa dall’attuale: dopo il voto di midterm è a maggioranza democratica ed è improbabile che non la bocci.

Sanders festeggia già: «Gli Usa non parteciperanno più all’intervento saudita in Yemen che ha causato la peggior crisi umanitaria della terra con 85mila bambini morti di fame». Nelle stesse ore, in Italia, lo scenario era un altro: a Montecitorio, in occasione di una conferenza su «Spese militari in Arabia saudita» (uno studio della ricercatrice Annalisa Triggiano), il sottosegretario agli esteri Guglielmo Picchi (Lega) parlava – riporta Città Nuova – della necessità di superare pregiudiziali ideologiche per tutelare gli interessi italiani in Medio Oriente. Interessi economici che nel caso dei Saud si traducono in vendita di armi in violazione della legge 185 del 1990, che vieta l’export militare verso paesi coinvolti in conflitti.

Un conflitto che il popolo yemenita spera sia giunto a un punto di svolta: in Svezia il tavolo Onu si è chiuso con la tregua ad Hodeidah. Ieri l’ambasciatore saudita in Yemen, Mohammed al Jaber, ha dato il via libera di Riyadh, mentre in centinaia all’aeroporto di Sana’a accoglievano la delegazione dei ribelli Houthi di ritorno dalla Svezia. Ma già ieri, raccontano i residenti alla Reuters, scontri armati erano ripresi nel quartiere 7 Luglio della città portuale.