«Questa è l’elezione della nostra vita» dice Bianca Cunningham, newyorchese di Brooklyn, sindacalista, attivista e co-presidente della sede di New York del Dsa, i Democratic Socialist of America, e questa è una frase che si sente ripetere spesso; «Si tratta di decidere dove vogliamo andare – continua Bianca -, se in direzione del fascismo o se si vuole cambiare strada e andare nella direzione di un governo compassionevole e dignitoso».

«È in gioco la nostra identità – spiega Ravi Bahlla, sindaco di Hoboken, New Jersey, diventato famoso lo scorso anno come il primo sindaco indiano sikh d’America, diventando così l’immagine simbolo della ripresa democratica in reazione alle politiche razziste di Trump – Il presidente è anti americano, la posta in gioco non è mai stata così alta. È tempo di riprenderci il nostro Paese». Gli inviti ad andare a votare sono continui e arrivano da tutte le parti, via social media, spot pubblicitari, flyer distribuiti per strada, e non è un fenomeno che riguarda solo le grandi città, le coste, i centri urbani tradizionalmente più politicizzati.

«Il midterm è un giro di elezioni locali che ha un impatto su Washington – spiega Brian da Madison, Wisconsin -. La differenza è che stavolta ne siamo consapevoli, e nessuno vuole perdere perché sappiamo che si tratta di cambiare il corso degli eventi, la qualità delle nostre vite. Ho famigliari e amici in Tennessee, Kentucky e tutti descrivono questo sentimento di urgenza. Votare non è mai sembrato tanto importante».

Questa sensazione deriva direttamente dalla polarizzazione dei due partiti; se fino a pochi anni fa la differenza tra democratici e repubblicani non era poi così marcata viste le comuni politiche neoliberiste in tema di economia, ora con un Partito repubblicano che non disdegna gli endorsement del Ku Klux Klan, e un Partito democratico che si proclama anche socialista, tra i due schieramenti si è scavato un abisso sia ideologico che pragmatico.

«Se vedete qualcosa di ingiusto non restate fermi, dite qualcosa, fate qualcosa: votate, votate come non avete mai fatto prima», ha esortato John Lewis, attivista per il movimento dei diritti degli afroamericani con Martin Luther King, e membro della Camera dei rappresentanti per lo stato della Georgia, dove si svolge una delle sfide elettorali più tese: Stacey Abrams potrebbe diventare il primo governatore donna afroamericana degli Usa, per di più in uno Stato super conservatore.

Le altre sfide calde riguardano il Texas, dove il sindaco democratico di El Paso, Beto O Rourke, contende il ruolo di senatore all’ultra conservatore del tea party Ted Cruz, diventando anche uno dei nuovi astri del firmamento democratico, amato anche fuori dai confini texani, mentre in Florida la battaglia è quella di Andrew Gillum per diventare governatore. Anche lui è sindaco, della capitale dello Stato Tallahassee, afroamericano, ha posizioni rivoluzionarie per la Florida: promette leggi molto più severe sul controllo delle armi, come quelle già applicate nella città che governa.

«In gioco c’è molto – spiega John Tarleton, direttore di Indypendent, da 18 anni una delle riviste culto della sinistra indipendente americana – Potremmo essere nella fase molto iniziale di qualcosa di potenzialmente molto più grande. Il socialismo americano è essenzialmente socialdemocrazia, ma iniziamo a raggiungere un primo obiettivo, come rimettere la sanità nelle mani del governo, a quel punto in molti potrebbero dire «hey, ma così funziona meglio. Cos’altro potrebbe funzionare meglio se lo socializzassimo?».