Sì, in Cina c’è un governo autoritario, ma tutto funziona sempre come deve. Sì, in Cina talvolta le decisioni prese dal Partito comunista sembrano imperscrutabili ma in fin dei conti i figli di oggi stanno meglio dei loro padri che stavano a loro volta meglio dei loro padri.

Ci deve essere una ragione che sfugge quando viene imposta una decisione che nell’immediato appare incomprensibile. Sì, in Cina si rinuncia a qualche libertà in più che altrove, ma lo si fa per l’interesse superiore del paese, del popolo. Sì, dobbiamo stare chiusi in casa o in qualche centro di isolamento centralizzato ma il cibo non manca.

ASSUNTI RARAMENTE MESSI in discussione negli ultimi decenni di grande crescita economica, tecnologica, sociale e geopolitica della Repubblica Popolare. Nemmeno dalla maggior parte dei suoi più accaniti oppositori e nemmeno in questi due anni e un po’ di pandemia. A parte i ritardi e alcune opacità nella reazione iniziale alla diffusione del coronavirus, Pechino è riuscita a contenere in maniera efficace contagi e decessi. Tanto che da più parti si è guardato con interesse al suo modello di contenimento, soprattutto nelle prime fasi.

TUTTO QUESTO FINO a poco tempo fa. Il lockdown di Shanghai sta cambiando il modo in cui il mondo guarda alla Cina e, soprattutto, il modo in cui tanti cinesi guardano al proprio governo. Dalle ultime settimane di paura e rabbia sono emerse le «voci di aprile», titolo del video collettivo che venerdì scorso è apparso sui social cinesi a una velocità e quantità di diffusione forse mai vista prima. Altrettanto velocemente è stato censurato, vista la sua critica alla strategia zero Covid. Ancor prima che il contenuto, che ribadisce in modo coordinato quanto testimoniato da centinaia di altri video e audio, il video è importante perché è un lavoro d’insieme. Fa confluire i sentimenti di tanti cinesi e stranieri residenti a Shanghai in un unico dispositivo di memoria collettiva.

«VOCI DI APRILE» è stato condiviso da cinesi di tutte le province, compresi quelli residenti all’estero e da coloro che hanno sempre avuto un’opinione positiva del governo. In molti ci hanno visto uno strumento di espressione dei propri sentimenti e sofferenze, rimossi dalla retorica del Partito che ha basato sull’efficacia della sua risposta anti pandemica un altro esempio della superiorità del suo modello rispetto a quello occidentale. Ma quanto successo a Shanghai dimostra che, seppure anche nella megalopoli le opinioni sulle restrizioni non siano univoche, qualcosa rischia di rompersi. Shanghai non è una città come le altre. A differenza di Shenzhen non è diventata grande, lo è sempre stata. È il simbolo della crescita cinese, di un paese che si apre al mondo e che da essere terreno di conquista diventa grande potenza globale.

LA SUA ALTERITÀ CULTURALE è stata in qualche modo portata avanti anche da una gestione locale della pandemia meno restrittivo rispetto ad altre città e province. A tutto questo è stato messo fine in modo repentino e con episodi quasi brutali come lo sgombero dei residenti di alcuni palazzi destinati a diventare centri di quarantena.

A WUHAN, XI JINPING aveva inviato l’astro nascente Chen Yixin per risolvere la situazione: missione compiuta. A Shanghai è arrivata la vicepremier Sun Chunlan e le cose sono addirittura peggiorate. Proprio mentre i media di stato sottolineavano che il legame tra strategia zero Covid e il leader è indissolubile. Xi «ha dato il tono a tutti», ha scritto Mao Xiaowei. Il presidente «ha personalmente assunto il controllo generale e preso decisioni decisive, e ha fornito una guida importante in ogni momento critico», ha ribadito Sun. L’effetto, voluto o non voluto, è che il malcontento è stato incanalato verso il governo centrale. Alcune voci sostengono che a breve il segretario locale Li Qiang sarà sostituito da un altro fedelissimo, Ding Xuexiang. Ma se su Wuhan e sulla morte di Li Wenliang il governo era riuscito a dirottarlo sui funzionari locali. Nel 2011, la rabbia per il disastro ferroviario del treno Pechino-Shanghai, era stata benzina per la campagna anticorruzione del futuro leader Xi.

STAVOLTA, NO. Xi vuole arrivare al XX Congresso con una medaglia da farsi appuntare sul petto: è lui il generale che deve vincere la guerra contro il demone del virus. Fino a qui sono state vinte tante battaglie. E anche quella di Shanghai sarà dichiarata vinta una volta che saranno rimosse le restrizioni. Ma forse è diventata una guerra che molti non capiscono più. Ora il cibo manca. Ora i volti spaventati e incerti dei volontari dicono che sembra mancare un elemento fondamentale: una ragione per quanto si sta passando. Non è nemmeno un problema di numeri, non è nemmeno un problema (solo) di autoritarismo: è un problema di efficienza.

ORA LA GUERRA contro il virus assomiglia per tanti alla guerra personale di Xi. Dopo alcuni segnali degli scorsi mesi, anche in concomitanza del plenum e della risoluzione storica, l’episodio di Shanghai fa pensare che oltre a una frattura tra corpo sociale e leadership se ne possa essere aperta anche una all’interno del Partito stesso. Solo speculazioni, ma la Cina ci ha insegnato già tante volte di non dare per scontato nulla.