La vittoria va «spacchettata» nei suoi fattori. Il più immediato è l’affaire dell’avvelenamento della ex spia per il quale il portavoce di Putin ha ringraziato la May: quanti indecisi sono andati a votare, ancora una volta umiliati e indignati dall’avversione occidentale verso il capo del loro governo, della loro Russia? Il sentirsi incompresi per l’avvvenuto distacco dal passato sovietico, accomuna la gran parte della piccola e media borghesia, della burocrazia amministrativa, dello strato dei tecnici che realizzano quotidianamente la differenza. E sono grati al governo che ha compiuto la transizione: dal caos degli anni di Eltsin alla riesumazione dei baluardi del potere pre-bolscevico, come la chiesa greco-ortodossa, e il nazionalismo patriottico. I russi che vivono in città, innanzitutto i giovani, si sentono parte del mondo occidentale, hanno i medesimi comportamenti nei consumi, nell’uso delle tecnologie d’avanguardia, nelle aspettative di business.

E si considerano utilmente rappresentati da chi hanno appena eletto. I russi che vivono ancora in campagna, nei piccoli centri e gli anziani hanno meno certezze epperò le pensioni sono finalmente pagate in tempo e regna l’ordine sociale. Chi è diventato ricco può vantarsene pubblicamente. Chi è povero deve prendersela con se stesso. Più o meno come prima del 1917.

Non la pensa così la quasi totalità di chi ha il potere in occidente e i mass media che ne sono la voce. Negli anni immediatamente seguiti alla fine dell’Urss la prospettiva era che la Russia sarebbe sopravvissuta come un medio paese nell’orbita americana, deindustrializzato, denuclearizzato, con crisi finanziarie e debolezze istituzionali. Non sembrò all’epoca un problema la scelta di Eltsin di puntare su Putin, un piccolo colonnello dei servizi segreti, per 5 anni di stanza in una città di provincia tedesca, la Dresda martoriata sul finire della guerra.

Quel piccolo colonnello è oggi raffigurato come uno zar nemico in quanto è uscito dall’orbita americana. In realtà per un non breve periodo Putin ha puntato sulla Germania dove aveva vissuto, sperando nel suo aiuto perché la Russia potesse tornare ad essere riconosciuta parte dell’Europa. Con l’ingresso nell’Unione europea dei paesi del patto di Varsavia, la speranza è caduta. E dalle successive avversità son venute fuori le iniziative politiche che fanno infuriare l’intera comunità occidentale. L’annessione della Crimea è solo l’ultima mossa della sua politica estera che sembra somigliare sempre più alla politica di potenza dell’Urss. Dopo aver subito le guerre nei Balcani e l’emarginazione dei serbi, la ripresa dei rapporti con la Cina e le incursioni nello scacchiere del Medio Oriente, vanno in parallelo con gli investimenti nell’apparato strategico-militare.

È poi la rinascita di quest’ultimo ciò che più inquietava dapprima l’America di Obama e oggi l’Ue, influenzata dalla Polonia, dall’Ungheria e persino da Riga e Tallin. Contrasti con l’Europa non sono nelle corde della borghesia russa nella quale ti imbatti ovunque in giro per semplice turismo, per le città d’arte, per business. E il loro capo di governo lo sa bene ed è alla ricerca di una politica di equilibrio tra il soft power richiesto dai suoi elettori e l’hard power che sembra la sola via per far riconoscere al suo paese un ruolo in linea con il suo recentissimo passato. Sta qui il fossato che separa il politico Putin dalle élite al potere nell’universo mondo: se l’America da sola investe negli armamenti più di tutti gli altri paesi, può tollerare e con lei i suoi alleati una qualche parità semplicemente perché forse la Russia dispone di una qualche nuova arma? Sembra difficile attraversare quel fossato e la vittoria elettorale rende Putin ancora più avversario.