Kakuma è voce di marinai alle corde, «tutto è perduto, alle preghiere, alle preghiere si corra! Come alle ultime corde precisamente». Il silenzio precede il limite della nuda soglia. Tutto sembra dimenticato: le passioni, i miti, ognuno è sopravvissuto. La vita sembra scivolata via come una barca di canne. L’approdo è una immobilità di vita che non somiglia per niente alla pace. Una immobilità implacabile che cova imperscrutabili propositi. Vivere a metà.

QUESTA È KAKUMA. All’estremo limite del Kenya, in una regione di confine con il Sudan, l’Uganda e l’Etiopia. Un territorio abitato da 147.670 persone provenienti da mezza Africa: sono i rifugiati delle tante guerre, vecchie e nuove, che violentano questo continente bellissimo e dolente.

Si tratta di un campo per rifugiati sorto ormai da ventisei anni, ma «abitato provvisoriamente». Un luogo in “sospeso”, nel regno della sabbia – il Turkana land – caratterizzato dal caldo opprimente e dalle pareti invisibili di un confine “invalicabile”: il deserto. Il campo è un sistema umanitario modellato esclusivamente sul concetto di «salvare le vite», ma prevede anche uno sforzo teso a ridurre al minimo l’impatto dei rifugiati sul paese ospitante: è nel contesto senza farne parte. È una sorta di extraterritorialità “transitoria”.

KAKUMA ERA NATO infatti per accogliere per 18 mesi i lost boys, bambini sudanesi ospitati nei campi dell’Etiopia che si erano persi lungo il cammino; correva l’anno 1992 e Kakuma è sempre al suo posto. Un agglomerato a forma di città, ma spogliato dei diritti di cittadinanza, per gli urbanisti una città nuda.

Tuttavia, Kakuma è costituita da più nuclei abitativi costruiti in base al momento di arrivo, poi c’è lo spazio delle ong e quello di Unhcr, tre spazi che si intrecciano e su cui agiscono due livelli economici distinti e di conseguenza due monete: il dollaro, che rappresenta la crescita esogena, e lo scellino keniano che determina lo sviluppo endogeno.

I dollari pagano gli aiuti, sia che provengano da Unhcr e sia che giungano da connazionali e amici immigrati all’estero, mentre lo scellino e il baratto “animano” gli scambi locali, i bricolage produttivi che integrano la sussistenza, svolgendo inoltre una funzione di medium di incontro tra la popolazione locale e i rifugiati.

RISALIRE DA NAIROBI lungo i mille chilometri che separano la capitale del Kenya al campo è una scuola di umanità, una ricerca di risposta alle domande fondamentali, una strada verso «l’essenziale che è invisibile agli occhi».

Il silenzio, l’aria calda, i percorsi solitari di uomini e animali trasmettono l’idea di un cammino verso le “origini”. Nessun romanticismo, ma piedi e mani spaccati dalla fatica, sete e succhi gastrici inoperosi per giorni.

Qui sembra di percorrere un limite, un confine dove si distinguono la vita e la morte senza fiction. Percorrere queste piste è guardare in modo sovversivo e umile a ciò che siamo stati fino a oggi, alle scelte fatte, agli sbagli e alle gioie vere, alle relazioni. Si è “nudi” come nuda appare la vita dei rifugiati.

L’AUTOBUS PARTE OGNI TANTO da Eastleigh (quartiere somalo di Nairobi dalla parvenza di una piccola Beirut). Mi reco sul posto e trovo una “compagnia” di trasporti che si muove “regolarmente” verso Kakuma, e così, sul calar della notte, insieme a sessanta rifugiati, salgo sull’eggs-bus, muovendo alla volta di Kakuma.

Attraversiamo la Rift Valley, Nakuru, il verde granaio del Kenya, gli allevamenti di mucche, le terre di Moi (ex presidente del Kenya) dove oltre al ponte, alla Moi University, scorgo persino una chiesa intitolata a suo nome, quindi Eldoret, Kitale e poi l’ingresso nel deserto keniota, ed è come se l’autobus fosse entrato in un micro-onde termo ventilato, ed ecco le capre e i ruscelli di sabbia, Lodwar e infine il «regno della sabbia». D

ieci posti di blocco militari ritmano il viaggio: su sessanta rifugiati, circa 30 sono costretti a scendere per «convenire» sul kitu kidogo (mazzetta), gli altri sono “in regola” cioè hanno pagato direttamente l’autista, che è già convolato a nozze con gli askari. Dopo 24 ore siamo nel campo.

OGGI, PRIMA VOLTA AL MONDO in un campo profughi, si svolgerà qui un evento TEDx, TEDxKakumaCamp, con relatori locali e internazionali che esplorano il tema: Thrive, «prosperare». Discorsi attorno a innovazione, educazione e trasformazione, per riflettere sulle vite dei rifugiati e raccontare storie straordinarie di resilienza, contributo e creatività.

Come Victor Lufungula, classe 1965, nato nella foresta di Kisangani durante la ribellione post-coloniale. «Mia madre – racconta – quando sono venuto alla luce, ha tagliato il cordone ombelicale con l’arbusto della canna da zucchero perché non c’era altro. Ho visto l’America, l’Europa e dopo gli anni senza pensiero dietro ai preti, senza preoccupazioni di cibo, vestiti e abitazione sono tornato all’inizio, nel ventre della madre Africa, che mi ha custodito ancora e mi ha dato una moglie».

Aiuti alimentari dalla Cina nel campo di Kakuma (LaPresse)