La fotografia può facilmente assumere il ruolo di arte applicata, sia per le caratteristiche tecniche sia, e soprattutto, per la gamma di rapporti diversi che può intrattenere con l’oggetto della rappresentazione e il tipo di sguardo cui si offre.

Ottimo esempio di questa ricchezza pluridimensionale è l’operazione congegnata dal fotografo belga Max Pinckers, in mostra a Torino – State of Emergency – nell’allestimento di Salvatore Vitale, nell’antica e suggestiva cornice della Corte medievale di Palazzo Madama, a inaugurare la prima edizione dell’Exposed Torino Foto Festival.

Pinckers traccia un cammino che, servendosi delle dimensioni di immaginazione e memoria aperte dalla fotografia, sconfina nella riscoperta della storia passata collegandosi con il presente, e allo stesso tempo affiancando alla ricerca fotografica un’astuta ricerca storiografica di archivio e anche di cultura orale. Gli strumenti dell’indagine storica e di quella antropologica si associano alla creazione di nuove immagini, consentendo uno sguardo all’indietro che si combina molto efficacemente a un discorso del e sul presente.
Il suo progetto è già stato descritto sul giornale (vedi l’intervista di De Leonardis a Pinckers, sul manifesto del 20 aprile), ma sembra utile ritornare sull’argomento dato il rilievo dell’iniziativa nel quadro del più ampio discorso postcoloniale oggi in atto su più versanti, al centro degli ex imperi europei come pure nelle ex colonie sparse nei cinque continenti.

Negli archivi britannici il fotografo Pinckers scopre fascicoli di documenti inediti sulla repressione che la Gran Bretagna operò fra il 1952 e il 1960 in Kenya, allora sua colonia, nei confronti delle popolazioni che esprimevano il movimento di guerriglia anticoloniale Kenya Land and Freedom Army (Klfa), detto Mau Mau, chiedendo la restituzione delle terre confiscate e l’uscita degli inglesi dal paese. Terra e libertà, insomma, come già reclamavano i frequenti moti che avevano scosso il paese nei decenni precedenti.
I Mau Mau, tuttavia, costituivano una novità rispetto al passato. Compatti e militarizzati, erano spalleggiati da popolazioni importanti (soprattutto kikuyu, meru, emba) che nel corso della colonizzazione erano state espropriate delle loro terre, ridotte in povertà e costrette a servire da manodopera a basso costo nelle piantagioni e fattorie dei coloni. Gli inglesi avevano trasformato il Kenya in colonia di insediamento, sfruttando il fertile territorio degli altipiani con coltivazioni estensive di caffè e tè divenute bottino di una classe di piantatori.

Erano gli anni Cinquanta: gli imperi europei si stavano sgretolando sotto i colpi dei movimenti anticoloniali e grazie all’esperienza della seconda guerra mondiale in cui molti africani avevano combattuto come truppa coloniale – gli ascari e i King’s African Rifles – e avevano ben misurato debolezze e divisioni dell’Europa.

In risposta alla guerriglia, nel 1952 gli inglesi dichiararono lo Stato d’Emergenza, scatenando una lunga e durissima repressione che insanguinò il paese per anni. Era allora primo ministro Winston Churchill, strenuo difensore dell’impero, cui nel 1955 succedette l’improvvido Anthony Eden che inciampò e cadde sull’impresa di Suez.

Nel 1963, con Harold Macmillan – che in un famoso discorso a Città del Capo aveva riconosciuto che «il vento del cambiamento soffiava sull’Africa» – arrivò l’indipendenza anche in Kenya.

Fu, ahimè, un’indipendenza avvelenata, che avviò il paese verso un neocolonialismo a base capitalistica anziché verso una libera decolonialità. La popolazione era uscita dallo Stato d’Emergenza stremata e divisa al suo interno, esacerbata da conflitti tra guerriglieri e anticolonialisti da una parte, e lealisti filobritannici dall’altra. La logica imperiale del divide et impera aveva favorito e sobillato aspre inimicizie, poiché l’esercito e la polizia coloniale si erano serviti di truppe, alleanze e spie africane che di buona o cattiva voglia spalleggiavano gli inglesi schierandosi con i «lealisti».

Dal 1960, quando la lotta armata dei Mau Mau cessò ufficialmente, e sino all’indipendenza nel 1963, la polizia kenyota (che gradatamente affiancò quella coloniale) perseguitò le ultime frange dei partigiani Mau Mau. Dopo il 1963, il nuovo governo kenyota di Jomo Kenyatta mise a tacere le voci della resistenza e decretò il silenzio sulla lunga e strenua lotta anticoloniale, invocando una pace di facciata che di fatto pose una pietra tombale sulla storia recente. Andandosene, gli inglesi bruciarono i documenti coloniali oppure se li portarono in Inghilterra, impedendo così ogni ricerca di archivio che potesse accertare autonomamente i fatti del recente passato.

I reduci dell’armata combattente Mau Mau furono abbandonati a se stessi, e le comunità videro inascoltate le loro richieste di giustizia, riparazione e risarcimento. Le terre espropriate durante il periodo coloniale non vennero mai restituite alle comunità e ai coltivatori africani.

Fu solo nel 2013, dopo reiterate istanze, che il governo britannico guidato dal conservatore David Cameron chiese ufficialmente scusa per le persecuzioni e gli eccidi compiuti in Kenya durante lo Stato d’Emergenza e versò un(insufficiente) risarcimento in denaro al governo kenyota. Erano passati sessant’anni dall’avvio della massiccia operazione repressiva che aveva visto 1.090 impiccagioni, decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di civili rinchiusi nei cosiddetti villaggi fortificati, veri e propri campi di concentramento non dissimili da quelli usati per la prima volta in Sudafrica durante la guerra angloboera nel primo Novecento, e quindi ritornati in auge nella feroce campagna repressiva attuata dagli inglesi in Malaysia nel secondo dopoguerra.

Quei sessant’anni, tuttavia, non erano trascorsi nel silenzio. In Kenya ben presto era emerso lo scontento, e non mancarono le voci dissenzienti, prima fra tutte quella del grande Tom Mboya, ministro della giustizia assassinatonel 1969. Il successore di Kenyatta – Daniel arap Moi (1978-2002) – si rivelò un dittatore durissimo e inasprì la repressione anche contro gli intellettuali che criticavano il sistema.

La vittima più eccellente fu lo scrittore Ngugi wa Thiong’o, noto e apprezzato a livello mondiale, ma perseguitato in patria, a lungo incarcerato e quindi costretto a un esilio che egli ha invano cercato di interrompere, ricevendone ulteriori oltraggi. Ngugi è di etnia kikuyu e ben conosce la storia e le amare vicende della sua gente, che narra collocando le trame dei suoi romanzi sullo sfondo della lotta anticoloniale guidata dai Mau Mau sin dal suo primo libro, Weep not Child (1964, in italiano Se ne andranno le nuvole devastatrici) e poi nel 1967 con A Grain of Wheat (Un chicco di grano), e altri ancora. Nel 1976 Ngugi, che intanto aveva adottato l’espressione teatrale come mezzo di popolare lotta sociopolitica, mise in scena The Trial of Dedan Kimathi (Il processo di DedanKimathi), rievocando il processo farsa che nel 1957 aveva portato all’impiccagione del più illustre eroe della resistenza Mau Mau.

La memoria dei fatti e del valore della resistenza Mau Mau non si era certo perduta quando nel 2015 il fotografo Max Pinckers andò in Kenya, in zona kikuyu, per portarvi una serie di documenti che attestavano le violenze dello Stato d’Emergenza e nei quali si era imbattuto negli archivi britannici. Si trattava di documenti in gran parte sconosciuti che copiò e sottopose alle associazioni di veterani Mau Mau, Ne nacque un dialogo animato, un’ondata di ricordi e reminiscenze che vengono attestati nella mostra e nel bellissimo volume che l’accompagna, Harakati za Mau Mau Kwa Haki, Usawa na Ardhi Yetu, e che riporta vecchie foto e documenti d’archivio insieme alle foto teatrali in cui i veterani stessi inscenano ricostruzioni dei fatti. Commenti, didascalie e dialoghi sono in inglese e swahili, le due lingue ufficiali del Kenya. Le foto di Pinckers offrono un contributo documentaristico ma anche emotivo, fortemente drammatico, al dialogo sulla storia, inverando le memorie tramandate oralmente in momenti di re-enactment. Dal punto di vista antropologico, l’operazione di Pinckers ha il sapore d’una osservazione partecipata e costituisce a sua volta testimonianza d’un passato che, nonostante le amarezze e le delusioni, comporta ancora una consapevolezza di valori condivisi. Ma nel contesto postcoloniale il gesto assume il valore di una restituzione che colma un vuoto e consente una narrazione storica più sfaccettata e multilaterale.

Dopotutto, sebbene ormai anziani, i tre veterani Mau Mau presenti all’inaugurazione – Peter Irungu, Paul Mwangi e Julius Kimari – possono dire di stare combattendo oggi una loro nuova guerra decoloniale che li porta a raccontare quell’altra antica guerra guerreggiata tanti anni fa nelle foreste dell’altopiano kenyota.