Sono passati dieci anni dal verdetto che avrebbe tenuto a battesimo il maggiore movimento popolare della storia moderna degli Stati uniti. Quel luglio del 2013, in risposta all’assoluzione di George Zimmerman, guardia giurata e assassino del diciassettenne afroamericano Trayvon Martin, un gruppo di attiviste indissero un assemblea nel cortile del St. Elmo Village, un collettivo di artisti ricavato dalle vecchie stalle di Mary Pickford, a South Los Angeles.

PATRICE CULLORS, Melina Abdullah, Alicia Garza e Ayo Timeti divennero il nucleo di un coordinamento contro le endemiche stragi di polizia. Black Lives Matter rimise al centro del discorso nazionale la questione del valore della vita degli afroamericani, svalutata da una stratificazione centenaria di violenze, schiavitù, linciaggi e incarcerazioni, di cui gli omicidi di polizia sono tangibile rappresentazione.

La polizia americana uccide ogni anno più di mille persone, una strage inesorabile, nata dalla concezione militarizzata di «ordine pubblico». Nel macabro elenco delle vittime, gli afroamericani sono rappresentati in proporzione tripla rispetto ai loro numeri.

L’ANALISI della polizia come strumento di controllo sociale aveva animato in parte la contestazione nera degli anni sessanta, e soprattutto l’autodifesa teorizzata dalla Pantere nere (che per questo erano state annientate). Quaranta anni dopo, un nuovo movimento recuperava ora quella critica anche grazie ad una nuova generazione di intellettuali come Nikole Hannah-Jones, autrice del testo definitivo sui meccanismi del razzismo sistemico (The 1619 Project) e Ta-Nehisi Coates, che in Tra me e il mondo connetteva lucidamente il retaggio schiavista al proto capitalismo, ed al controllo «razzializzato» delle classi operaie e subalterne.

Ad alimentare le proteste in un numero sempre maggiore di città americane, fu la cronaca sempre più simile ad un bollettino di guerra. Nel luglio del 2014 la polizia di New York fermava Eric Garner, per vendita abusive di sigarette. Immobilizzato dagli agenti che gli schiacciavano il collo dopo averlo gettato a terra, prima di morire avrebbe pronunciato una frase destinata a diventare triste simbolo: «I can’t breathe» – non respiro.

IL MESE SUCCESSIVO, in un sobborgo di St. Louis, un ragazzo di diciotto anni rincorso dalla polizia – Michael Brown -, alzava le mani al cielo prima di venire ugualmente crivellato di colpi. «Hands Up! Don’t Shoot!», sarebbe stato lo slogan delle rivolte che per molti mesi tennero Ferguson Missouri in stato d’assedio.

I «disordini civili» come periodica, esasperata risposta alla «forza letale» della polizia, sono un antico copione americano. Difficile dimenticarlo a Los Angeles dove il pestaggio di Rodney King fece esplodere la rivolta generale nel 1992. Venti anni dopo Black Lives Matter forniva una rete di coordinamento, e soprattutto una risposta politica ad ogni nuovo omicidio – e in quei mesi fu uno stillicidio.

DOPO GARNER e Brown ci furono Stephon Clarke, Freddie Gray, Breonna Taylor, Laquan McDonald, , Adam Toledo, Philando Castile, Walter Scott, Alton Sterling e decine di altri. Ad ognuno seguirono proteste Blm – a Los Angeles, Ferguson, Baltimora, Cleveland, Chicago, Sacramento, Atlanta, Akron. Nei cortei – e negli atenei – si formava una nuova leadership, di cui spesso furono protagonisti studenti come quella che, nel corteo che a Los Angeles nel 2015 occupò Union Station, mi disse: «Quante volte ancora saremo costretti a ricombattere le lotte fatte dai nostri padri, le nostri madri….dai nostri nonni?».

I MANIFESTANTI allora, tanto a Watts che sul ponte di Brooklyn, le marce di Martin Luther King le avevano imparate a scuola, beneficiavano di quelle conquiste – ma nel fascio di luce di una torica di polizia a tarda sera, per loro non era cambiato quasi nulla. Le loro vite valevano ancora molto meno di quelle bianche.

Fu evidente per l’ennesima, interminabile volta quel tragico pomeriggio a Minneapolis quando il martirio di George Floyd ripropose in diretta Facebook l’iconografia inconfondibile del linciaggio con quel ginocchio sul collo e l’uomo nero a terra, sempre a terra che in un rantolo implora «non respiro….mamma». Quella che seguì fu l’apoteosi di un movimento che seppe cristallizzare in una nuovo «abolizionismo» la critica a quell’impianto di plantation capitalism succeduto alle piantagioni vere e proprie che ha perpetuato egemonia e subalternità razziale.

LA VASTITÀ del movimento a cui si unirono persone di ogni razza ed età colpì veterani del calibro di Angela Davis e Kareem Abdul Jabbar che nel 2020 mi disse: «Non si tratta più unicamente degli emarginati storici, neri, Lgbtq, donne, ebrei e musulmani…. Si sta scoprendo che unendo le forze possiamo essere più efficaci che come gruppi separati. Quando uno non è libero, emerge forse finalmente l’idea di una lotta collettiva».

Black Lives Matter ha saputo ampliare il campo ad una critica radicale e intersezionale, non solo a temi queer e di lotta delle donne ma a rivendicazioni sindacali di rappresentazione nelle “stanze dei bottoni” , come l’università e come Hollywood dove di pari passo è andata emergendo una nuova generazione post-Spike Lee di autori militanti come Ryan Coogler, Lena Waithe, Donald Glover o Boots Riley. E alla cultura di privilegio ed iniquità che rimane fisiologica in una società che stenta ad elaborare retaggi profondamente coloniali. La critica alla narrazione suprematista racchiusa nei monumenti agli “eroi” sudisti rimarrà fra i principali contributi ad un necessario processo di revisione storica allargato da Blm a tutto l’Occidente.

IL MOVIMENTO fa oggi i conti con l’involuzione reazionaria che interessa proprio quell’Occidente. Gli attacchi strumentali di cui è stato oggetto da destra, (da Donald Trump a Ron DeSantis, fautore di un violento contrattacco istituzionale in Florida) hanno in parte logorato un movimento che oggi nei sondaggi registra un favore di 51%, rispetto al 67% del 2020. Rimane invece immutata la sua importanza come movimento progressista, ancora una volta incarnato da una popolazione, quella afroamericana, da sempre capace di rammentare all’America i suoi peccati originali – e la necessità di progredire.