Quando, il 12 marzo del 1938, le truppe naziste invasero l’Austria e la Germania hitleriana annesse ai propri territori quelli del Paese confinante (l’Anschluss), iniziò per i cittadini di origine ebraica un lungo periodo nel corso del quale la loro esistenza sarebbe stata scandita da una sequela pressoché ininterrotta di provvedimenti vessatori che . dal febbraio del 1941 – sarebbero stati seguiti dalla deportazione in vari campi di concentramento, dove gli israeliti sarebbero stati in gran parte sterminati. Di fronte all’incalzare degli avvenimenti e delle misure persecutorie, un numero significativo di ebrei viennesi tentò di rendersi irreperibile, di scomparire, di entrare in clandestinità: costoro cercarono insomma di percorrere una strada diversa rispetto a quella battuta da tanti loro correligionari.

È IL TEMA AFFRONTATO dal saggio Schattenexistenz. Jüdische U-Boote in Wien 1938-1945 (Picus Verlag, pp. 376, euro 28), nel quale la storica Brigitte Ungar-Klein ha preso in esame molti degli aspetti che hanno caratterizzato la quotidianità dei tanti ebrei viennesi che, dal 1938 al 1945, si sono nascosti animati da un solo intento: scampare alla Shoah.

L’autrice si è posta, in altri termini, alcune domande: quante sono state le cosiddette «esistenze-ombra» alle quali fa riferimento il titolo dell’opera, da chi sono state aiutate e quali sono state le conseguenze prodotte sulla loro psiche, nell’immediato dopoguerra e nei decenni successivi, da un’esperienza del genere?

Attraverso interviste, sia a tanti sopravvissuti che ad alcuni soccorritori, e utilizzando innumerevoli fonti scritte, la storica ha portato alla luce un universo assai complesso fornendo nel contempo un contributo di grande rilevanza sul fenomeno dei cosiddetti U-Boote viennesi: individui che – come è indicato in maniera eloquente dal termine, alla lettera «sottomarini» – hanno vissuto in una condizione di illegalità, passando spesso da un nascondiglio all’altro, senza registrarsi presso le autorità competenti; persone che hanno modificato spesso la propria identità, si sono avvalse di documenti falsi, hanno manipolato le loro generalità e beneficiato talvolta dell’aiuto altrui.

BRIGITTE UNGAR-KLEIN fornisce anzitutto alcuni dati che illustrano il fenomeno sotto l’aspetto quantitativo: la sua ricerca ha documentato le vicende di oltre 1600 ebrei viennesi che, durante il periodo della loro clandestinità, hanno potuto contare sull’ausilio diretto di quasi 1900 concittadini. Mentre dunque, nel dicembre del 1942, la popolazione israelita della capitale austriaca era stata ormai decimata – dal momento che ben 48mila ebrei erano stati deportati e circa 110mila avevano trovato la possibilità di espatriare nei modi più disparati – migliaia di «sottomarini» affrontavano la loro quotidiana lotta per la sopravvivenza che era spesso segnata dal verificarsi di avvenimenti drammatici, dall’incombere di pericoli gravissimi, dalle continue privazioni, dalle condizioni spesso disumane. Poi finalmente, il 13 aprile del 1945, l’arrivo delle truppe sovietiche avrebbe posto fine alle persecuzioni.

CERTO, SI È TRATTATO di un’esperienza davvero traumatica, destinata a lasciare il segno nella memoria dei sopravvissuti fino all’ultimo giorno della loro vita. Una superstite come Lucia Heilmann ne ha parlato nel 2017 dando così voce a un’angoscia ancora vivissima: «Paura, il primo sentimento è costituito dalla paura, paura se qualcuno suona alla porta, paura per tutto il giorno». Erano vivi, «riemersi» dai loro nascondigli: nessuno di loro, però sarebbe riuscito a riprendere la vita di un tempo.

A questo proposito, infine, va sottolineato come parecchi ex «sottomarini» siano stati colti dalla cosiddetta «sindrome dei sopravvissuti». uno stato d’animo caratterizzato da un profondo senso di colpa e di vergogna che – come hanno del resto fatto anche moltissimi reduci dei lager – li avrebbe sovente indotti a rifugiarsi nel silenzio. Il loro reinserimento nella società è stato quindi costituito da un cammino lungo e irto di difficoltà, reso ancora più arduo dalla freddezza e, in qualche caso, dal fastidio con cui, nell’Austria del dopoguerra, si tendeva a guardare tanto agli ex U-Boote quanto agli scampati alla Shoah.