La desertificazione visiva e acustica delle città in questi tempi ci mostra la nuda, spesso cruda, verità della natura. Una desertificazione al contrario, in realtà, dove l’ambiente si riprende il suo spazio e l’uomo è costretto a ritirarsi, sorta di selezione darwiniana che premia chi è più forte, e lascia allo scoperto, falciandolo via, chi è più debole. Da un lato gli animali che tornano a invadere i parchi, dall’altro gli uomini, pochi e indifesi, che continuano a vagare per i centri urbani perché alternative non ne hanno. Come i rider, ad esempio.

La parola d’ordine, oggi, è sicurezza. Ma di chi, e di cosa? La sicurezza legata al mondo del cibo, ad esempio, ha tante sfumature: quella di tutti noi che usciamo solo per fare la spesa, attentissimi a rispettare le regole; quella dei prodotti che consumiamo e dei contenitori che li avvolgono; quella dei rider che mettono in pericolo la loro salute, e quella degli altri, per soddisfare il nostro bulimico bisogno di cibi non certo essenziali.

Le flotte dei rider in queste settimane sono più o meno sempre le stesse: qualcuno – solo chi può permettersi di non guadagnare per un po’ – ha deciso di rimanere a casa, tutti gli altri fanno i trasporti come in un giorno qualunque. Solo con più ritardi, e meno guadagno. «Attività essenziali», dice il decreto.

LA FEDERAZIONE ITALIANA PUBBLICI ESERCIZI (FIPE), ha persino lanciato il servizio Ristoacasa.net, il delivery della ristorazione italiana in tempo di restrizioni: semplice e veloce, come recita il mantra del lavoro digitale rigorosamente freelance, consente già in alcune città la geolocalizzazione degli esercizi che effettuano il servizio di consegna a domicilio sulla base della distanza dalla propria abitazione, della tipologia della cucina e della fascia di prezzo.
Spulciando i dati di Fipe, si può osservare come il 40% dei ristoratori segnali una «buona» crescita della domanda di cibo a domicilio. Al momento dell’entrata in vigore del blocco delle attività, tra le imprese della ristorazione tradizionale, solo il 5,4% era già in grado di fornire il delivery. Il 10,4% si è subito attivato per svilupparlo.

Interessante notare anche come sia cambiato l’approccio dei consumatori al food delivery. Circa il 10% degli italiani che non lo aveva mai usato prima ha iniziato a farlo. Dall’altra parte, invece, sono in molti ad avervi rinunciato, scegliendo di cucinare, visto che tanto stanno a casa. Non solo: un italiano su quattro ammette di aver timore del contagio e il 14% preferisce risparmiare, perché oggi i più fortunati hanno Cig e bonus, domani chissà. Al primo posto delle ordinazioni regna indiscussa la pizza (68%), seguono piatti tipici della cucina italiana (26%) e il classico hamburger con patatine (22%).

AI PIANI ALTI SONO QUESTI I NUMERI che contano. Quelli di chi tiene in piedi il sistema sono poco interessanti. La catena economica viene prima, li ingurgita. Sicurezza, tutele e salute sono categorie concettuali nemmeno contemplati nell’economia on demand che non si ferma mai.

Decidiamo di uscire all’ora di pranzo in quattro giorni differenti della settimana. Il centro di Torino è spettrale, come il resto d’Italia. Anche il meteo è ballerino di questi tempi. I primi due giorni c’è sole e fa caldo, un cielo terso che da queste parti non si vede mai. Gli altri due fa freddo, tira un vento gelido, piove anche. Ma il quadro che ci troviamo davanti agli occhi è sempre lo stesso: i rider sfrecciano davanti a noi come se il mondo non si fosse fermato. Ne seguiamo qualcuno, tenendoci lontani, anche noi in bici.

IN QUATTRO GIORNI DI OSSERVAZIONE cambiano essenzialmente due cose: ciò che i rider indossano, e i colori delle loro facce. Nei primi due giorni – e siamo già alla penultima settimana di marzo – quasi nessuno di quelli che incrociamo porta guanti e mascherine. Le flotte sono variegate, come in tempi normali: non più solo stranieri, come accadeva agli esordi del food delivery, ma anche giovani italiani, laureati che lo fanno per arrotondare o ragazzi che non trovano altro, e persino persone di mezza età. Ci colpisce parecchio una signora dallo sguardo innocente: ha visibilmente più di cinquant’anni, non propriamente un fisico atletico, si muove un po’ a fatica sulle due ruote, ma riesce a stare nei tempi di consegna.

Negli ultimi due giorni di osservazione – l’ultima settimana di marzo – la maggior parte dei rider che incrociamo ha mascherina che avvolge la bocca e guanti protettivi. Qualcuno li infila solo al momento della consegna. Moltissimi italiani, giovani e meno, non escono più. Per strada, a schivare le buche in mezzo a carreggiate desolate, sono rimasti soprattutto africani, pakistani e latinoamericani. Quelli che avviciniamo e hanno voglia di parlare («ma non scrivere i nostri nomi per favore»), ci raccontano che i dispositivi di sicurezza che le aziende avrebbero dovuto garantire loro se li sono comprati da soli. «Meglio rimetterci qualche euro che la pelle», scherzano.

Ma c’è ben poco da ridere. La sicurezza del food delivery ha tante facce. Ci sarebbe da discutere su quanto siano davvero essenziali pizza, sushi e junk food, lamentano i rider, «per placare la fame di consumo di un popolo ormai stremato dalla quarantena». A partire da febbraio è entrato in vigore il decreto che obbligherebbe le aziende a versare i contributi Inail e a fornirgli i dispositivi di protezione individuale, ma il «security kit» non l’ha visto ancora nessuno.

A TORINO, IN QUESTE SERE, accadono anche cose strane. «La Polizia svolge il servizio sicurezza per conto di alcune catene di fast food e se la prende con noi rider. Davanti ad alcuni ristoranti alle sette di sera ci sono fuori in coda almeno trenta rider. Se non si possono rispettare gli standard di sicurezza il locale deve chiudere, non si può continuare a colpevolizzare noi che siamo obbligati ad aspettare in un vicolo per più di un’ora con la paura di non sentir chiamare il nostro numero».

I rider protestano e si riuniscono virtualmente nella pagina Facebook Deliverance Project per denunciare i diritti negati e le mancate tutele, lanciando l’hashtag #IoNonPossoStareACasa e rivolgendo un appello al premier Giuseppe Conte. Parliamo anche con uno degli organizzatori. «Stiamo lavorando in condizioni selvagge». Obbligati ad aspettare spesso ammucchiati fuori dai pochi ristoranti aperti, con evidenti rischi: «Il prezzo della nostra salute? Quindici euro al giorno, quando va bene. Chi prima arriva lavora, gli altri no. E se non hai ordini negli orari di punta perdi punteggio per quelli successivi».
Qualche giorno fa erano felici alcuni rider perché si sono visti recapitare a casa un pacco. «Saranno mascherine, disinfettanti, guanti». Invece, dentro c’era solo una mascherina monouso, di quelle che secondo gli esperti andrebbero cambiate ad ogni consegna perché, inumidendosi con la saliva, si trasformano in pericolosi veicoli di contagio.

NON SOLO. I CONTROLLI SULLE CONDIZIONI DI LAVORO dei rider sono diventati anche controlli a loro e alle loro biciclette. Vengono fermati, verificati, gli zaini aperti, qualcuno si è sentito dire anche «fammi vedere il permesso di soggiorno». Ma il cibo che trasportano mai, quello non conta. In diversi ci raccontano di essere stati multati per la mancanza del casco o dei fanalini, oggetti che dovrebbero essere forniti dalle multinazionali per cui prestano servizio a cottimo. È intervenuta anche la Cgil, suggerendo ai rider di «farsi rimborsare l’importo delle sanzioni dai propri datori di lavoro».

Dopo il danno, la beffa. Come moltissime altre categorie di lavoratori, i rider sono rimasti esclusi dal bonus di 600 euro previsto dal Governo per sostenere autonomi e partite Iva. «Se il nostro lavoro è ritenuto essenziale vogliamo che sia riconosciuto e pagato adeguatamente. La sospensione del servizio e l’inclusione dei rider nelle misure di assistenza ai lavoratori autonomi ci sembra l’unica soluzione logica ed è ciò che continueremo a chiedere, anche se ormai chiedere non sembra più abbastanza».