Negli edifici alle spalle della stazione centrale degli autobus a Tel Aviv a malapena senti qualcuno che parla ebraico. Soprattutto il venerdì, quando comincia lo shabbat, e i lavoratori stranieri trascorrono il giorno di riposo condividendo gli appartamenti fatiscenti che affittano nella zona meridionale della città. Cinesi, eritrei, nepalesi, sudanesi e tanti altri giunti da Africa e Asia popolano questa parte della città. Sono gli scampati ai piani governativi di espulsione e delle (presunte) «partenze volontarie» di «clandestini» e di chi era entrato legalmente nel paese ma ora non ha più un permesso valido. Tanti attendono di conoscere il loro destino che sarà deciso dal ministero dell’interno. Fra questi anche 36 madri filippine con il visto di lavoro scaduto e 50 figli, quasi tutti nati e cresciuti in Israele.

È un numero esiguo, le autorità potrebbero regolarizzare la posizione di queste donne. Lo chiedono con forza i capi delle Chiese cattoliche intervenuti con un documento congiunto a sostegno di una comunità per trequarti di fede cristiana con bambini che spesso frequentano, per il catechismo, il Patriarcato latino di Gerusalemme. Ma il ministero dell’interno non intende creare un precedente che potrebbe, avvertiva perentorio qualche giorno fa il giornale di destra Yisrael HaYom, essere usato a favore dei bambini di migranti africani. Così è cominciata la campagna d’estate che, secondo la stampa locale, prevede l’espulsione almeno di un centinaio di persone.

La prima è avvenuta il 29 luglio: a una filippina e al suo bambino di 11 mesi è stato imposto il rientro in patria. Il giorno dopo i giudici hanno respinto l’appello contro l’espulsione di un’altra donna filippina con due figli di 10 e 5 anni. Casi che indicano la ferma volontà di usare il pugno di ferro contro i «clandestini», senza badare alle proteste di centri per i diritti umani e persino di alcuni esponenti del governo di destra, come il ministro Rafi Peretz, che hanno mostrato una posizione più morbida.

Già nel 2006 e nel 2009 centinaia di bambini stranieri, nati in Israele da genitori senza visto di soggiorno, avevano rischiato l’espulsione. Le proteste però costrinsero le autorità a concedere a un migliaio di ragazzini nati prima del 2004, e quindi in età scolare, la residenza legale. Un provvedimento che non è stato più ripetuto. La campagna d’estate perciò andrà avanti, lentamente, facendo poco rumore, prevedono gli attivisti israeliani.

Metapelet, badante in ebraico, è sinonimo in Israele di donna filippina. Il 50% dei circa 60mila stranieri (legali e illegali) che svolgono lavori domestici o che assistono anziani e ammalati, viene dalle Filippine. Considerati affidabili, i filippini, in particolare le donne, sono molto richiesti dalle famiglie israeliane, anche in ragione dell’invecchiamento della popolazione. Nel 2009 c’erano meno di 250mila israeliani di età superiore agli 80 anni; entro il 2059 saranno ben oltre un milione. Come i contadini tailandesi e i muratori cinesi, i filippini sono trasparenti alla maggior parte degli israeliani, una comunità che svolge i lavori che nessuno vuole fare.

Badanti e infermiere filippine, in piccolo numero, inizialmente furono fatte arrivare dal ministero della difesa per prendersi cura dei soldati disabili. Ora sono decine di migliaia e il contributo finanziario che danno al loro paese è ingente: nel 2016 hanno rimesso circa 125 milioni di dollari, secondo i dati della banca centrale filippina. La maggior parte di loro è in Israele in media da 15 anni. Molte donne filippine hanno scelto di restare anche con i visti scaduti per permettere ai figli di proseguire la scuola. Minori che spesso hanno l’ebraico come lingua madre ma sono privi di status legale. Pur di regolare il loro status non poche donne filippine hanno imboccato la strada del matrimonio di convenienza con cittadini israeliani, spesso molto anziani. Uno sviluppo che turba le gerarchie religiose, ebraiche e cristiane.