La rilevanza strategica dell’Italia è da inserire all’interno di un approccio europeo diversificato alla cosiddetta nuova via della Seta. E insieme agli aspetti più economici, vanno tenuti in considerazione quelli più specificamente politici.

La domanda alla quale si dovrebbe rispondere è la seguente: con gli accordi relativi alla nuova via della Seta, la Cina ha intenzione di spingere più paesi a difendere il modus operandi di Pechino o alla dirigenza del Pcc basta soltanto un ritorno economico e di agibilità commerciale in determinate aree? Perché il do ut des di tutti gli accordi conclusi dalla Cina, a oggi, ha portato a comportamenti piuttosto ambigui da parte dei paesi che hanno sposato il progetto cinese.

Per quanto riguarda l’Italia, inoltre, bisognerebbe aggiungere un ulteriore elemento: se Xi Jinping sceglierà anche Palermo come porto di riferimento, oltre alle già prescelte Genova e Trieste, si compierà un collegamento non solo marittimo, ma anche geopolitico, con gli interessi cinesi in Africa e in particolare in Algeria, paese con il quale la Cina ha stretto accordi relativi alla Belt and Road Initiative a metà 2018: saremmo di fronte alla creazione di un ulteriore corridoio marittimo, tra i tanti previsti dal progetto cinese che ormai esula da confini geografici configurandosi come un immenso «mondo geopolitico» connesso, in qualche modo, a Pechino. Con il particolare, però, che gli interessi italiani in Algeria, ad esempio (ma potremmo sostenere la stessa cosa in tanti altri paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo), non sono certo pochi.

L’Europa dovrebbe essere il terminale della traiettoria commerciale cinese e già dal 2018 l’Unione europea aveva sottolineato la necessità del carattere di reciprocità: come sostenuto da Mattarella una tratta commerciale deve essere in grado di essere percorsa in un senso e nell’altro.

Ma quando Pechino si muove, solitamente, non lo fa solo con ovvie mire commerciali, puntando cioè a una velocità maggiore della circolazione delle merci; la Cina ha quasi sempre mire anche di natura geopolitica che possono spaziare dal soft power ad accordi usati come teste di ponte per ottenere poi asset dei paesi con i quali tratta. In Europa Pechino si è mossa con scaltrezza, andando immediatamente ad azzannare il paese più in difficoltà, ovvero la Grecia.

Sfruttando la privatizzazione del porto del Pireo ne ha sostanzialmente assunto il controllo, garantendo ad Atene di aumentare i propri traffici mercantili, ma portando il governo greco su posizioni politiche filocinesi. Che questa fosse una richiesta esplicita o piuttosto un comportamento cauto della Grecia rimane il fatto che Atene ha votato contro una risoluzione critica verso la Cina in sede Onu.

Analogo comportamento è stato tenuto anche dall’Ungheria che nel 2017 ha firmato un memorandum analogo a quello firmato ieri da Roma. E Budapest ha rotto l’unità europea su un documento di condanna per gli arresti arbitrari di avvocati in Cina, così come – insieme ad Atene – non ha votato una critica dell’Ue per quanto riguarda il comportamento cinese nel Mar cinese meridionale, zona di isole contese da Pechino e da molti altri paesi asiatici e che di recente la Cina sta militarizzando in modo unilaterale.

C’è poi un altro problema segnalato dagli scettici nei confronti del progetto cinese: gli investimenti in progetti infrastrutturali regionali attraverso prestiti possono comportare il rischio, per economie non proprio in salute e vulnerabili, di alzare i livelli di indebitamento. Il progetto autostradale cinese in Montenegro, ad esempio, ha aumentato il debito del paese.

In generale, dunque, avere a che fare con la Cina richiede una certa stabilità politica ed economica e la capacità di negoziare da pari. Non è un caso se prima dell’Italia, lo stesso tipo di documento era stato firmato dalle già citate Grecia e Ungheria e dal Portogallo. Non certo paesi in grande salute economica e capaci di contare su alleanze internazionali in grado di garantire un certo grado di autonomia nelle scelte strategiche.