Via della Seta addio. L’Italia se ne va senza fare rumore
Politica La Cina sposa il basso profilo della rottura ma le aziende temono ripercussioni
Politica La Cina sposa il basso profilo della rottura ma le aziende temono ripercussioni
L’ingresso sembrava una marcia trionfale, l’uscita è arrivata in silenzio da una porta di servizio. L’Italia è fuori dalla Via della Seta. Epilogo atteso, certo ormai da mesi. Ma le sue modalità semi segrete stridono con le fanfare del marzo 2019, quando il governo gialloverde di Giuseppe Conte accolse in pompa magna il presidente cinese Xi Jinping per firmare il memorandum di adesione alla Belt and Road Initiative.
A poco più di due settimane dalla scadenza del 23 dicembre per evitare il tacito rinnovo quinquennale, il governo ha fatto quello che Giorgia Meloni ripeteva sin dalla campagna elettorale: ha cancellato l’accordo. Come anticipato dal Corriere della Sera, l’uscita è avvenuta tramite una lettera di disdetta formale recapitata nei giorni scorsi al governo cinese. L’Italia aveva provato a ottenere un cambio dei termini, con una tacita disdetta invece di un tacito rinnovo. Ne aveva parlato Antonio Tajani, durante la sua visita a Pechino di settembre. Ma alla fine la Cina ha detto di no, sposando il basso profilo ma rendendo chiare le responsabilità della rottura.
Il governo Meloni ha d’altronde provato a depoliticizzare il più possibile una scelta sostanzialmente obbligata a causa delle pressioni (dirette o meno) degli Stati uniti: difficile (se non impossibile) ospitare il summit del G7 del 2024 stando dentro il progetto di Xi. La premier ha evitato di fare annunci sia durante la visita alla Casa bianca di luglio, sia in qualsiasi altra occasione pubblica. È stato anche atteso il terzo forum sulla Belt and Road di ottobre, per non dare un dispiacere al leader cinese prima dell’evento. Un riguardo fondamentale per la Cina, per cui l’uscita di basso profilo è funzionale a evitare di sottolineare quello che potrebbe essere considerato uno smacco internazionale.
Il passaggio parlamentare di cui si era parlato non c’è però in realtà mai stato, a conferma di una decisione già presa e di cui, al di là delle frasi di rito, la diplomazia cinese era a conoscenza già da almeno sei mesi.
Non può sfuggire poi che proprio oggi si svolge il summit Cina-Ue, con Xi che riceve Ursula von der Leyen e Charles Michel. La coincidenza di tempi fa sì che il dossier italiano finisca nel “calderone” dei complicati rapporti tra Pechino e Bruxelles, offrendo teoricamente un po’ di riparo.
E ora che succede? «Il partenariato strategico è molto più importante della Via della Seta», aveva detto Tajani all’omologo Wang Yi. Lo ha sostanzialmente ribadito ieri, dicendo che l’addio alla Belt and Road è stato accompagnato da un impegno al rilancio del partenariato che nel 2024 celebra il suo ventennale. In questi mesi, il governo Meloni ha mostrato di essere pronto a firmare accordi di cooperazione su settori specifici, mandando in visita a Pechino la ministra del Turismo Daniela Santanchè e quella dell’Università Anna Maria Bernini. È stato anche rinnovato il protocollo tra la Farnesina e il ministero di Scienza e tecnologia cinese.
Le tante aziende italiane operanti in Cina o interessate a esplorare quel mercato temono ripercussioni e possibili ritorsioni. Di certo Pechino potrebbe far pesare pubblicamente l’uscita, chiarendo che l’Italia perderà una «corsia preferenziale» nei rapporti commerciali. Allo stesso tempo, ci sono segnali che nemmeno la Cina voglia scatenare una sorta di scontro diplomatico. Da Pechino hanno fatto capire che la preannunciata visita di Giorgia Meloni si sarebbe potuta (per ora) evitare, con una preferenza a ricevere Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica dovrebbe andare in Cina a febbraio per una sorta di viaggio riparatore con la “scusa” dei 700 anni dalla morte di Marco Polo.
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