Non fa che aggravarsi la situazione in Nicaragua. Dopo i sanguinosi scontri registrati domenica nelle città di Diriamba e Jinotepe, in cui, secondo il Centro nicaraguense di diritti umani (Cenidh), sarebbero morte almeno 17 persone, compresi due poliziotti, la repressione ha raggiunto anche i vescovi.

L’arcivescovo di Managua Leopoldo Brenes, il suo ausiliare José Silvio Báez e il nunzio apostolico Waldemar Stanisław Sommertag si erano recati lunedì a Diriamba, a 41 km dalla capitale, per portare conforto alla popolazione, in seguito alle violenze perpetrate, in base alle testimonianze raccolte dal Cenidh, da polizia, agenti antisommossa, paramilitari e altri gruppi armati fedeli al governo, fino all’uso di bulldozer contro le barricate montate dai manifestanti. «Sembrava un esercito di occupazione», ha riferito la presidente del Cenidh Vilma Núñez.

Giunti in città, i tre vescovi sono stati aggrediti da un gruppo di paramilitari, strattonati e insultati. Monsignor Bàez, a cui è stata anche strappata la croce pettorale, è stato colpito allo stomaco e ha riportato una piccola ferita al braccio.

E mentre i livelli di violenza continuano a salire, non si intravede alcuno spiraglio di luce, ancor meno dopo il no di Ortega alla richiesta dei vescovi e di tutta l’opposizione di anticipare le elezioni a marzo del 2019, come unica via per risolvere la crisi.

«Qui le regole le pone la Costituzione attraverso il popolo», ha risposto sabato il presidente, deciso a restare al potere fino al termine del suo mandato nel 2021: «Le regole non si cambiano dal giorno alla notte solo perché lo vuole un gruppo di golpisti».

Ma il punto, ha replicato l’ex guerrigliera sandinista Dora María Téllez, non è se Ortega voglia o meno lasciare il potere: «Neanche Somoza voleva. Alla fine, sarà comunque costretto a dare le dimissioni».